Pratofungo è un paese inventato da Italo Calvino nel romanzo Il visconte dimezzato del 1952. Si trova vicino a Terralba ed è un villaggio di lebbrosi, nel quale gli ammalati, non avendo speranza di vivere una vita normale in mezzo ai sani, che li respingono per paura di essere contagiati, pur essendo poveri e moribondi se la spassano in allegria e in armonia. È un villaggio di gaudenti che, avendo reciso i loro rapporti con la società, passano il loro tempo a suonare, ballare, bere vino e fare l’amore. Nel frattempo, lì accanto, gli ugonotti di Col Gerbido lavorano i campi con il fucile in mano, sempre pronti a sacrificare la loro vita e il loro tempo in nome di un ideale.
Una quindicina di anni dopo Philip K. Dick, in Clans of the Alphane Moon – tradotto in italiano Follia per sette clan – inventa Gandhiville, il villaggio degli ebefrenici: persone colpite da una forma di schizofrenia che si manifesta con l’apatia, l’abbandono e, quindi, con la rinuncia al confronto con gli altri. Gli Eb – questo è il nome del clan, uno dei sette che popolano la luna del terzo pianeta di Alpha Centauri – vivono in baracche, non si prendono cura di sé e passano gran parte del tempo a guardare nel vuoto o a svolgere attività manuali. Timorosi di essere giudicati, preferiscono non dare un contributo alla società ma comunque, isolati su un pianeta-manicomio abitato solo da pazzi, fanno la loro parte svolgendo lavori manuali. Intanto i Para – affetti da paranoia, – gestiscono meticolosamente ogni aspetto della vita pubblica all’interno di una città fortificata, e i Mani – psicosi maniaco-depressiva – sono costantemente impegnati nella creazione di ordigni, dispositivi e opere fuori dall’ordinario nella città di Alture DaVinci.
La prima, di Calvino, vuole essere un’allegoria degli artisti decadenti, la seconda, di Dick, è una più complessa e articolata rappresentazione del rapporto tra normalità e follia. Hanno in comune, entrambe le invenzioni, la capacità di rendere evidente, sia pure in modo grottesco e esasperato e patologico, la figura del rinunciatario, ovvero di colui o colei che rinuncia con eccessiva arrendevolezza a far valere i propri diritti, a difendere le proprie prerogative, o anche a realizzare le possibilità esistenti.
La rinuncia a realizzare le possibilità esistenti. Questa è la mia paura principale. Una paura tutta professionale, che riguarda il mio ruolo di docente. Io ho il terrore di formare, con il mio insegnamento, alunni rinunciatari. È il solo errore che non sarei capace di perdonarmi. Per questo è importante, per me, indagare le cause della rinuncia e osservare sempre attentamente i miei alunni per verificare che non stiano rinunciando o non abbiano già rinunciato. Ed è importante, anzi fondamentale, che la mia didattica sia improntata allo sviluppo degli anticorpi necessari a sventare questo rischio. Una didattica che spinga ad agire e sia capace di dare un senso al tempo e all’energia che ciascuno sta impiegando in aula.
Perché problema più grande, a scuola, non è la bocciatura, e neanche la dispersione scolastica. Il più grande dei problemi è la presenza, in classe, di persone che, avendo già rinunciato, – non importa per quale motivo – stanno imparando a dare un senso alla loro rinuncia. Provano a giustificare a loro stessi il motivo per cui, non avendo intenzione di imparare qualcosa e di mettere a frutto la possibilità di essere a scuola, devono comunque restare. Alcuni rimangono a scuola per trasformarla nel villaggio di Pratofungo, altri accettano di vivere a Gandhiville. Altri ancora sono destinati a entrare a far parte del clan dei Dep, quello che Dick ha inventato per i depressi, i quali, inchiodati alla loro incapacità di agire, non sono in grado di dare alcun contributo alla società.
Per questo è importante tenere sempre a mente, come finalità di ogni percorso di istruzione – ma, più in generale, di ogni servizio pubblico, – al di là dei risultati di apprendimento previsti dalla normativa, l’empowerment delle persone.
Empowerment: una parola inglese che in italiano viene tradotta con l’espressione accrescimento o conferimento di potere. Una sorta di “impoteramento”: il processo di acquisizione di un potere. Viene usata in pedagogia e psicologia per indicare il processo di conquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire.
Si tratta di un concetto complesso, usato in diversi ambiti già a partire dagli Sessanta, quando i movimenti per i diritti civili hanno cominciato a mettere al centro dell’idea stessa di democrazia la necessità di dare ai più deboli la possibilità di emanciparsi dalla loro condizione di dipendenza dai servizi pubblici, dall’elemosina dei ricchi, dalla condiscendenza dei maschi, dalla benevolenza dei bianchi. L’empowerment, in quest’ottica, è il processo attraverso il quale le categorie sociali più deboli sono aiutate ad assumersi le loro responsabilità attraverso lo sviluppo di capacità che danno l’accesso a nuove opportunità e che consentono di assumere un maggiore controllo sulla propria vita.
Questa è la domanda che un adulto dovrebbe farsi di fronte a una qualsiasi attività scolastica. Alla fine del corso di studi lo studente (ogni studente) ha acquisito un maggiore controllo sulla propria vita? Si assume le responsabilità delle sue azioni? Ha conquistato una maggiore consapevolezza di sé? È diventato o no più empowered?
Emancipazione, iniziativa individuale, responsabilità, opportunità, impegno, coinvolgimento attivo, autonomia,autoefficacia, padronanza della propria vita. Sono le parole e i concetti ereditati da una tradizione di studi che in Italia è rimasta ai margini del dibattito politico e, soprattutto, delle pratiche scolastiche, ma che ha trovato spazio nell’opera e nelle azioni di grandi intellettuali e insegnanti come Maria Montessori, Bruno Ciari, Mario Lodi, Lorenzo Milani, Gianni Rodari, Danilo Dolci, Alberto Manzi, i quali hanno capito per primi che per realizzare la democrazia a scuola non era sufficiente applicare gli articoli 34 e 35 della Costituzione, ma bisognava cominciare dal rendere operativo l’articolo 3, che recita così:
Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
(Rielaborato dalla voce Empowerment di La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico, Effequ 2019).