Il libro di Roghi, ultimo di una trilogia dedicata al cammino della scuola democratica in Italia (per cui rinvio alle recensioni uscite su questa stessa testata, La lettera sovversiva di don Milani e Finalmente il futuro), affronta in modo diretto, dal punto di vista storiografico, il problema della didattica democratica in Italia.
Muovendo dalla premessa che la storia della scuola, «lungi dall’essere soltanto una storia politica, legislativa, o una storia culturale, è anche, e soprattutto, la storia di quello che avviene in classe» (p. xiv), l’autrice si propone di ricostruire il cammino intrapreso nell’immediato dopoguerra da un gruppo di maestre e di maestri che presto si sarebbero riconosciuti nel Movimento di Cooperazione Educativa, e che, nell’arco di alcuni decenni, avrebbero contribuito al cambiamento della scuola a partire dalla prassi didattica, ovvero dall’applicazione, in classe, di tecniche didattiche coerenti con teorie pedagogiche e modelli didattici sviluppati e discussi – almeno in una prima fase – con alcuni tra i più illustri intellettuali della loro epoca.
Conoscere la storia delle trasformazioni avvenute dentro la scuola e delle idee che le hanno messe in moto – e poi di quelle che sono nate come reazione a quei cambiamenti – fornisce un contributo fondamentale, oggi, per chi voglia praticare la scuola democratica e per chi intenda parlarne in modo fondato, senza lasciarsi attrarre dalle sirene dei luoghi comuni sul declino, sul “donmilanismo” e sull’impossibilità di attuare qualsiasi riforma nelle classi e negli istituti scolastici, prima ancora che nel sistema dell’istruzione.
Questa – si legge a pagina xxi dell’Introduzione – è la storia del tentativo di rendere concreto un principio astratto come quello dell’uguaglianza, la storia di chi, dentro le aule scolastiche, ha cercato di rimuovere gli ostacoli, di inventare una pratica trasformando l’ideologia democratica in pratica democratica.
Il caso di Mario Lodi, di cui ricorre il centenario della nascita, è l’occasione non tanto per studiare un esempio eccezionale, dai tratti unici e non replicabili perché strettamente correlati alla biografia e alla personalità del maestro, quanto semmai per evidenziare come, in un’epoca pionieristica, quando le norme e il contesto politico e culturale erano ancor meno favorevoli, sia stato possibile praticare collettivamente, da parte di un grande numero di docenti, strategie e tecniche didattiche laboratoriali come il testo libero, la scrittura collettiva, la corrispondenza interscolastica, il giornale scolastico, il “libro di vita” – una raccolta degli scritti della classe, a documentazione dell’attività svolta – e la libera espressione, che consiste nel drammatizzare, giocare a creare situazioni, a cambiare posizioni e ruoli, moltiplicare le rappresentazioni, sperimentarsi in personaggi diversi. Sono pratiche variamente documentate, che testimoniano che ciò che è stato autorevolmente sostenuto in sede scientifica sul valore educativo dell’esperienza e della cooperazione ha conosciuto una grande varietà di applicazioni pratiche.
Come affermato ancora da Roghi, sulla scorta degli studi su Franco Basaglia di John Foot, ragionare sui cambiamenti effettivamente realizzati in passato all’interno delle istituzioni è fondamentale per capire che quelle trasformazioni sono possibili solo attraverso iniziative collettive («nessun carisma individuale o spinta ideologica, seppur potente, è sufficiente a cambiare le istituzioni nella loro sostanza oltreché nella loro forma»), e che una volta che un’istituzione è stata trasformata, anche in profondità, come è stato il caso della chiusura dei manicomi, non è detto che non si possa tornare indietro, ma quel che conta è sapere che è stato già fatto e che quindi, «farlo, sarà possibile ancora una volta, di nuovo, sempre» (p. xxii).
La presa di parola, l’ascolto, la socialità
Dell’esperienza di Mario Lodi, ricostruita puntualmente da Roghi in tutta la sua complessità, tenendo conto della fitta rete di connessioni con altri esponenti del MCE, con il contesto politico nazionale e locale e con le teorie pedagogiche novecentesche, è utile ritenere almeno alcuni aspetti fondamentali, che mettono in luce la straordinaria coerenza tra teoria e prassi, tra una concezione democratica e ugualitaria della vita scolastica e uno stile di vita altrettanto democratico e ugualitario.
Innanzitutto, all’inizio del percorso si colloca la lezione di Mario Bosio, che dando importanza alla “soggettività proletaria” per la ricostruzione della storia delle classi popolari indicava a un’intera generazione la strada da percorrere per allargare la partecipazione democratica alla cultura nazionale, e poi di Danilo Dolci, di Rocco Scotellaro e di tutti quegli intellettuali che, all’inizio degli anni Cinquanta, si impegnano in una lettura originale della realtà del loro tempo ricorrendo allo strumento dell’inchiesta. «Non dare la voce», precisa Roghi, fedele interprete del pensiero di Bosio e anche di Lodi, ma «raccogliere la voce» di coloro che finora sono stati esclusi dal dibattito culturale: i contadini del sud, certo, le prostitute, i minatori della Maremma e le maestre.
Lodi – si legge a pagina 63 – compie il gesto più radicale quando, sollecitato dalla riflessione del MCE, applica questo metodo all’infanzia. Il racconto dell’esperienza in classe così non ha finalità solo didattiche, ma progressive.
Un libro come C’è speranza se questo accade al Vho (1963), quindi, non solo offre una narrazione puntuale di tecniche didattiche e di esperienze di apprendimento che possono essere così diffuse a livello nazionale, ma è anche – secondo la definizione di «folklore progressivo» elaborata da Ernesto De Martino nel 1951 – uno strumento di «avanzamento culturale effettivo delle masse popolari», che può contribuire, raccogliendo la voce dei bambini, alla nascita di una «cultura popolare progressivamente orientata».
Parlare di centralità del fanciullo significa, dunque, partire dall’ascolto e – come messo bene in evidenza da Bruno Ciari all’inizio delle Nuove tecniche didattiche (1961) – accogliere la cultura e la lingua di ogni alunna e alunno, senza dimenticare che non si tratta di espedienti per preparare il terreno alla scolarizzazione o alla successiva acculturazione, ma di creare le condizioni affinché, attraverso la socializzazione e il confronto critico con l’ambiente, un gruppo di persone casualmente riunite in un’aula diventi una comunità capace di cooperare per affrontare problemi comuni e di contribuire attivamente e concretamente allo sviluppo culturale con le proprie idee, con le proprie soluzioni e con le proprie visioni del mondo, che finalmente possono essere espresse indipendentemente dall’età, dalla classe sociale e dalla provenienza geografica.
La rottura tra didattica e politica
Uno dei meriti più evidenti che si possono ascrivere alla ricostruzione di Roghi consiste, a mio avviso, nell’aver fornito un’interpretazione plausibile alla messa in discussione, nel dibattito pubblico e anche all’interno dello stesso Movimento di Cooperazione Educativa, dell’approccio didattico al problema della democraticità della scuola.
Le tecniche didattiche, fin qui ritenute un elemento necessario alla trasformazione rivoluzionaria della vita scolastica, a partire dal Sessantotto vengono percepite dalle nuove generazioni di insegnanti di area comunista come un residuo del riformismo, e pertanto respinte in nome di una più radicale opera di abbattimento delle strutture, da realizzare agendo non più al livello della classe, con il lavoro cooperativo, ma a un livello più alto. Un livello inevitabilmente distante da quelle bambine e quei bambini, ragazze e ragazzi, che ancora negli anni Settanta sono al centro dell’interesse del lavoro di Gianni Rodari.
Grazie al lavoro di Roghi possiamo oggi considerare quest’ultimo il più fedele continuatore del pensiero e dell’opera di Bruno Ciari, che muore già nel 1970, e dello stesso Lodi, che trova in Rodari un fiancheggiatore e promotore instancabile, ma anche un interprete e critico acutissimo: nella Grammatica della fantasia (1973) Rodari promuove i testi prodotti dai bambini alla dignità di opere, da sottoporre a un’analisi semiologica e a un’interpretazione psicanalitica. Così facendo mostra a chi insegna la possibilità di arrivare a un’adeguata conoscenza della cultura e dei processi cognitivi di chi apprende.
Ma sono proposte destinate a non fare breccia tra la massa degli insegnanti, e neanche tra gli intellettuali dell’epoca, che preferiscono mettere da parte la riflessione sul lavoro in classe e la ricerca didattica – un fenomeno che Roghi fa risalire, all’interno del MCE, già al 1966 – per concentrarsi sulla ricerca di senso e sul ruolo dell’insegnamento e della scuola in un momento di crisi che coinvolge soprattutto la cosiddetta scuola tradizionale, fondamentalmente autoritaria e antidemocratica, ma che finisce per travolgere coloro che fin dal primo dopoguerra avevano cercato di praticare la democrazia a scuola.
La lotta contro quella che viene definita la “scuola prigione”, un’istituzione totale considerata irriformabile e quindi da abbattere, non contempla la possibilità di trasformare il rapporto tra insegnanti e studenti attraverso la didattica e mettendo in relazione la scuola e il mondo, come proposto e praticato dall’inesauribile Lodi per tutta la sua esistenza. Accusato di collateralismo al sistema, il riformismo di Lodi – secondo una dinamica che, spiega Roghi, è ancora oggi ben presente nel discorso pubblico sulla scuola – finisce per saldare antiche diffidenze di stampo idealistico con la vulgata marxista, e per oscurare il lavoro didattico di Lodi, pur esaltandone le straordinarie qualità personali di scrittore e di insegnante. A poco valgono i ripetuti richiami di Lodi alla centralità delle tecniche e alla condivisione delle esperienze: pur aumentando il numero degli iscritti al Movimento di Cooperazione Educativa, e proprio nel momento in cui prende forma il dibattito sull’educazione linguistica democratica, si legge nel Passero coraggioso,
la questione del lavoro cooperativo, della riproducibilità dell’esperienza, delle tecniche, insomma, diventa sempre meno importante nelle discussioni fra insegnanti, in favore di una discussione politica più generale.
Convinto fautore di una scuola nuova, da rinnovare attraverso l’azione didattica, Lodi – e con lui una generazione di insegnanti – si trova in minoranza rispetto a chi si è impegna con analoga convinzione nella chiacchiera pedagogica o antipedagogica, preferendo all’azione qui e ora la ricerca delle parole giuste per parlare di scuola o per annunciarne l’imminente palingenesi.
[Riproduco qui una parte di una recensione uscita sulla rivista online «La ricerca» il 10 novembre 2022 con il titolo Dieci libri italiani di didattica #7].