È uscito il numero 24 della rivista «La ricerca», interamente dedicato al “merito” e alla sua resistibile ascesa nel mondo dell’istruzione pubblica italiana.
Ma che cos’è questo “merito” che il Ministero dell’Istruzione sventola come una bandiera nel suo nuovissimo logo e nella sua denominazione? La Costituzione lo dice chiaramente all’articolo 34, non a caso richiamato esplicitamente nel documento parlamentare che giustifica l’istituzione del MIM (Ministero dell’istruzione e del Merito): “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.” L’istruzione inferiore, quindi, è gratuita, e per essa non c’è bisogno di ricorrere al “merito” perché le risorse assegnate dallo Stato devono essere destinate a tutte e a tutti. Lo Stato – si evince da questo articolo – non sembra invece intenzionato a mettere a disposizione di tutti l’istruzione superiore, che è quindi impartita solo a una parte della popolazione: a coloro che hanno i mezzi per pagarsela e, tra coloro che non dispongono di risorse, ai capaci e ai meritevoli, i quali hanno diritto ad accedere a borse di studio, assegni e altre provvidenze la cui attribuzione è stabilita tramite concorso, ovvero da parte di un qualche potere pubblico che deve definire criteri e modalità di valutazione.
Mettere l’accento sul merito accanto all’istruzione, dunque, significa non solo dichiarare la propria incapacità di elargire a tutti lo stesso servizio, ma anche ergersi a giudici e arrogarsi il potere – una volta deciso di non assegnare le risorse necessarie all’erogazione di un servizio pubblico universale – di scegliere i criteri per conferire le risorse rimanenti, sotto forma di premi e riconoscimenti pubblici.
Come già avevano capito i ragazzi della Scuola di Barbiana nel 1967, e ce lo avevano generosamente spiegato nella loro Lettera a una professoressa, una cosa è premiare gli arrivisti, coloro che desiderano diventare medici o ingegneri attraverso un lungo e costoso percorso di studi, un’altra è garantire a ciascun cittadino il diritto ad essere sovrano attraverso l’acquisizione della lingua, “Perché è solo la lingua che fa eguali”.
Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata: «I capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere.
Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. Vadano all’università, arraffino diplomi, facciano quattrini, assicurino gli specialisti che occorrono.
Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora.
(Per leggere l’articolo Premi, medaglie e altre distinzioni e gli altri pubblicati sul numero 24 di «La ricerca», clicca qui).