Ripropongo una riflessione sul “voto-manganello” uscita sulla rivista «La ricerca» il 21 settembre scorso.
Una premessa: come cittadino e come esperto di didattica e di scuola sono profondamente scosso e preoccupato dal recente provvedimento sul voto di condotta. Il provvedimento, però, ha perlomeno l’utilità di smascherare ulteriormente l’ipocrisia dell’aver citato, in occasione dell’aggiunta della parola “merito” alla denominazione del ministero, quell’articolo 34 della Costituzione secondo cui i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»: mi pare ormai evidente l’intenzione di consegnare a docenti e scuole strumenti coercitivi in grado – almeno sulla carta – di garantire la funzione selettiva e segregazionista che la scuola italiana ha ereditato dall’epoca predemocratica e di cui evidentemente non riesce a liberarsi (per un approfondimento di questo aspetto si rinvia a questo articolo).
Cominciamo con il chiarire il senso della valutazione a scuola, provando a leggere le norme in relazione al dettato costituzionale e sempre tenendo a mente il secondo comma dell’articolo 3, secondo cui «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La valutazione, si legge nel “Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni” (DPR 122/2009), «è espressione dell’autonomia professionale propria della funzione docente, nella sua dimensione sia individuale che collegiale, nonché dell’autonomia didattica delle istituzioni scolastiche» – è evidente il richiamo all’articolo 3 della Costituzione e alle riforme Bassanini – ed è presentata come un diritto di ogni alunno:
Ogni alunno ha diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, secondo quanto previsto dall’articolo 2, comma 4, terzo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998, n. 249, e successive modificazioni. 3. La valutazione ha per oggetto il processo di apprendimento, il comportamento e il rendimento scolastico complessivo degli alunni. La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo, anche in coerenza con l’obiettivo dell’apprendimento permanente di cui alla «Strategia di Lisbona nel settore dell’istruzione e della formazione», adottata dal Consiglio europeo con raccomandazione del 23 e 24 marzo 2000.
Sul sito dello stesso Ministero leggiamo che la valutazione «accompagna i processi di apprendimento e costituisce uno stimolo al miglioramento continuo, in modo da finalizzare i percorsi didattici all’acquisizione di competenze disciplinari, personali e sociali». Nella scuola del primo ciclo, come specificato nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del 2012, la valutazione «assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo». Si rinvia per un approfondimento a uno dei testi più alti che siano stati prodotti dal Ministero, le Linee guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo di istruzione (D.M. 742/2017), dove si leggono tra l’altro le seguenti considerazioni:
La valutazione rappresenta, quindi, una dimensione importante dell’insegnamento perché incide notevolmente sulla formazione della persona, contribuisce a determinare la costruzione dell’identità nei ragazzi, può far crescere la fiducia in sé quale presupposto della realizzazione e della riuscita nella scuola e nella vita. Gestire bene la valutazione è fattore di qualità dell’insegnante e della sua stessa azione educativa e didattica. Per fare ciò è necessario prima di tutto avere presenti le diverse funzioni da assegnare alla valutazione e perseguirle in equilibrio senza sbilanciamenti verso l’una o l’altra.
Per gestire bene la valutazione, dunque, si diceva appena cinque anni fa – coerentemente con una tradizione pedagogica e docimologica che si può far risalire alle origini della scuola democratica – è necessario avere presenti le diverse funzioni che è possibile assegnarle: una cosa è la valutazione sommativa, che si concentra sul prodotto finale dell’insegnamento (e che si realizza con gli esami di Stato, che dovrebbero verificare il raggiungimento dei risultati di apprendimento previsti dai diversi profili in uscita), altra è la valutazione con funzione formativa, che «si concentra sul processo e raccoglie un ventaglio di informazioni che, offerte all’alunno, contribuiscono a sviluppare in lui un’azione di autoorientamento e di autovalutazione» e che assume anche una «funzione proattiva», poiché «riconosce ed evidenzia i progressi, anche piccoli, compiuti dall’alunno nel suo cammino, gratifica i passi effettuati, cerca di far crescere in lui le “emozioni di riuscita” che rappresentano il presupposto per le azioni successive».
Ora, visto che la valutazione è sempre anche una questione di potere – siamo sempre di fronte, nei sistemi di istruzione, a qualcuno che esprime una valutazione che incide sulla pelle di qualcun altro, generalmente posto in posizione subalterna –, è evidente che la questione della funzione che viene attribuita alla valutazione è decisiva per capire il quadro di valori e le finalità ultime che guidano le scelte di chi legifera e di chi governa, e anche, ovviamente, di chi poi applica le norme nella scuola.
Stando a quanto letto finora, mi sento di affermare che chi ha legiferato fino a questo momento ha assegnato alla valutazione una funzione prevalentemente formativa, collocandosi opportunamente nell’alveo della tradizione democratica, secondo cui la scuola dovrebbe essere uno strumento di liberazione e di emancipazione per gli individui e di garanzia per la convivenza civile. È un argomento che si può approfondire leggendo il volume La valutazione che educa di Cristiano Corsini.
A questa funzione educativa e liberatoria della valutazione e, in generale, della scuola, si contrappone nettamente una visione autoritaria, selettiva e competitiva dell’istruzione, che ha origini predemocratiche e che, pur non trovando accoglienza nelle norme, è ancora radicata nella società italiana e nelle scuole, al punto che ancora oggi sembra scandaloso parlare di scuola senza voto, mentre sono socialmente accettate le grottesche e assurde pratiche del voto in pagella come frutto di una media aritmetica o del voto come fine stesso dell’apprendimento.
In un certo senso, possiamo dire che il disegno di legge presentato nei giorni scorsi dal ministro dell’istruzione e del merito, in cui si manifesta l’intenzione di revisionare «la disciplina in materia di comportamento delle studentesse e degli studenti», fa uscire allo scoperto un’idea di scuola secondo cui la valutazione non sarebbe più un diritto della persona, e neanche uno dei tanti strumenti di cui dispongono i nuovi cittadini e le nuove cittadine per compiere il loro percorso di sviluppo personale e di emancipazione, ma semplicemente, senza mezzi termini, uno strumento da consegnare nelle mani di quei docenti che – meno avvezzi o addirittura avversi ai principi della scuola democratica – sentono il bisogno di «ripristinare la cultura del rispetto» (proprio così), ovvero di disporre di un’arma capace di tenere a bada quei nuovi cittadini e quelle nuove cittadine che con la loro presenza (obbligata) nelle classi sembrano minare la serenità di chi insegna con i loro comportamenti irresponsabili.
Ma si legga pure direttamente il testo, al terzo comma dell’articolo 3:
Al fine di ripristinare la cultura del rispetto, di affermare l’autorevolezza dei docenti delle istituzioni scolastiche secondarie di primo e secondo grado del Sistema nazionale di istruzione, e di rimettere al centro il principio della responsabilità, e restituire piena serenità al contesto lavorativo degli insegnanti e del personale scolastico, nonché al percorso formativo degli studenti, con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si provvede alla revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti.
Si tratta, alla fine, di mettere l’accento sul comportamento di studentesse e studenti come minaccia della serenità del contesto lavorativo degli insegnanti, che devono essere rispettati in virtù della loro autorevolezza: un’idea di scuola in cui non stonano predelle e “umiliazioni” (sic), in cui la verticalità dei rapporti e la disparità di valore attribuito alle persone coinvolte sono accentuate, e quindi a sua volta la democraticità, ovvero la piena partecipazione come soggetti attivi degli e delle studenti alla messa a punto delle “regole d’ingaggio”, molto compromessa.
Un ulteriore ragionamento, a questo proposito, sarebbe opportuno sul fatto che il «voto di comportamento» – questa è la denominazione di quello che continuiamo a chiamare voto in condotta – era stato reintrodotto con intento evidentemente repressivo dalla ministra Gelmini nel 2008, che al tempo rilasciò la seguente dichiarazione, mettendo il voto di condotta in relazione con alcuni episodi di bullismo: «Si torna a una scuola del rigore che fa del comportamento un elemento significativo per formare la personalità dei ragazzi» (qui si può leggere una sintesi dei fatti). Va detto innanzitutto che, al di là del mio giudizio negativo su questa narrazione del declino della scuola e di un pericolo incombente per giustificare pratiche autoritarie, si tratta di uno strumento che davvero mette a repentaglio l’intero impianto del sistema di istruzione come è stato disegnato negli ultimi quindici anni, da quando – anche su iniziativa della stessa ministra Gelmini, ma evidentemente solo per rispondere ai richiami dell’Unione Europea – si è cominciato a definire i risultati di apprendimento in termini di competenze, e si è scelto quindi di spingere la scuola verso un insegnamento e una valutazione che integrano quello che una volta si chiamava “rendimento” con la “condotta”, le conoscenze e le capacità con le attitudini e con i comportamenti.
Per fare un esempio concreto, l’insegnante di Italiano della scuola secondaria di primo grado oggi dovrebbe far sì che alla fine del percorso triennale ogni studente abbia acquisito una serie di «traguardi per lo sviluppo delle competenze», che sono prescrittivi e che dovrebbero quindi costituire il principale criterio per la valutazione. Riporto il primo, a titolo di esempio:
L’allievo interagisce in modo efficace in diverse situazioni comunicative, attraverso modalità dialogiche sempre rispettose delle idee degli altri; con ciò matura la consapevolezza che il dialogo, oltre a essere uno strumento comunicativo, ha anche un grande valore civile e lo utilizza per apprendere informazioni ed elaborare opinioni su problemi riguardanti vari ambiti culturali e sociali.
Come si può osservare, non è possibile separare i contenuti dai comportamenti, le conoscenze dagli atteggiamenti: ogni studente, messə in condizione di interagire, dovrà mobilitare le sue risorse cognitive durante delle attività in cui il o la docente sia in grado di valutare anche i comportamenti – o meglio, di osservare i comportamenti e di raccogliere informazioni utili a comprendere se i livelli raggiunti sono adeguati alle aspettative eccetera. Valutare il comportamento scorporandolo dal processo di apprendimento significa innanzitutto non considerare come tutte e tutti gli attori che partecipano alla scuola, che agiscono nella classe, adulti o meno, sono corresponsabili del clima e dell’atmosfera che vi si respira, della sua cultura, e continuare ad avvalorare pratiche di assegnazione del voto basate di solito esclusivamente su verifiche puntuali delle conoscenze acquisite attraverso test e interrogazioni, nonché sulla rilevazione di comportamenti ritenuti scorretti e quindi da punire. E quindi vanificando gli sforzi di chi sta cercando di applicare quei principi, propugnati dalle diverse linee guida e indicazioni nazionali, che dovrebbero rendere la scuola un ambiente più sensato, meno arbitrario e, sì, finalmente democratico.
In conclusione, è fin troppo evidente l’analogia tra questo approccio alla valutazione – un voto di comportamento usato per aumentare il potere di chi insegna su chi apprende – e il concetto di buona condotta, usato in ambito carcerario per definire il comportamento corretto del detenuto o della detenuta durante l’esecuzione della pena. D’altronde, se la scuola è un carcere, è opportuno che le guardie siano dotate dell’occorrente per evitare insubordinamento, evasioni o sommosse, ed è proprio in questo contesto che trova una buona giustificazione il ricorso al voto-manganello.