Allievi e maestri (una forma di vita, un’idea di società)

La prima volta che ho incontrato un maestro avevo quattordici anni. Il mio insegnante di biologia, il professor Pianigiani, ha esercitato su di me un’influenza profonda. Ricordo con esattezza cinematografica la prima interrogazione sul metodo galileiano, e ritengo di dovere a quel periodo di studio assiduo e devoto gran parte della mia passione per il pensiero scientifico. Una passione che negli anni universitari mi ha avvicinato al magistero di Paolo Rossi, uno dei più grandi filosofi della scienza del nostro paese.
A quella mia prima avventura di “allievo”, durata un paio d’anni, è seguito un lungo periodo di solitudine.
Ho continuato a studiare, certo, ma senza trovare grandi stimoli nei miei pur bravi docenti di allora. All’università, poi, ho trovato quello che non esito ancora oggi a definire “il mio maestro”, il filologo fiorentino Domenico De Robertis, col quale mi sono laureato. Alla sua scuola ho imparato cosa vuol dire lavorare in gruppo, cosa significa essere valutati e, soprattutto, a cosa serve lavorare assiduamente in modo autonomo e sapendo di poter contare sempre sul sostegno di una persona seria e competente.
Poi è finito il tempo dei “compagni” – come ebbe a scrivere in quegli anni l’amico, compagno e poeta Massimiliano Chiamenti – ed è iniziata l’era dei colleghi: l’attività di ricerca, l’insegnamento, la progettazione e la consulenza. Ma evidentemente io non ho smesso di cercare – e di trovare – dei maestri e delle maestre. La più importante è stata – ed è ancora – Gabriella Papponi Morelli. La signora Morelli – questa è la formula con la quale io mi rivolgo a lei e di lei parlo in pubblico e in privato – posso dire che sia stata la prima maestra. Potrei definirla una donna di potere: dirigente scolastica con importanti incarichi ministeriali, grande tessitrice di relazioni interistituzionali, dotata di un senso del dovere e di un rispetto per le istituzioni pubbliche che avevo già ammirato in De Robertis, ma che in lei si coniugava, e si coniuga ancora, con un senso di iniziativa e con uno spirito di servizio che non avevo mai incontrato prima. Alla sua scuola sono diventato a mia volta un manager della formazione, un esperto di istruzione e di orientamento, e anche un insegnante che aspira alla creazione di una scuola profondamente democratica e antielitaria.
Al suo fianco (o forse nella sua scia) ho imparato a coordinare un gruppo di lavoro, ad assumermi delle responsabilità sapendo che sarei stato protetto (ma non risparmiato dalle critiche, se necessarie), a creare occasioni per me e per gli altri. Perché il segreto della politica – e di vera politica si tratta, in questo caso – consiste nell’inventare mondi possibili: progetti, imprese, idee, utopie, non importa cosa purché sia chiaro lo scopo di aprire orizzonti per sé e per gli altri. Gli psicologi di comunità lo chiamano empowerment: dare potere alle persone e alle comunità, aumentare le opportunità e la capacità di scelta.
Lo confesso, non avrei voluto occuparmi così tanto e così a lungo di scuola, di istruzione, di formazione professionale e di orientamento. Ma lei mi ha fatto diventare bravo e mi ha fatto sentire bene nel mio ruolo, e così eccomi qui, ancora oggi alle prese con le commissioni ministeriali, l’insegnamento, la consulenza e la formazione dei docenti.
Il progetto più importante della mia carriera non l’ho scelto io. Non so chi l’abbia inventato, ma di sicuro è stato costruito grazie all’iniziativa della signora Morelli, capace di mettere insieme persone e risorse messe a disposizione da enti locali e scuole. A me ha assegnato il ruolo di coordinatore didattico, un mestiere a me ignoto, da esercitare in un contesto tutto da inventare. Il “diploma online” – questo era il nome del progetto – è stato una delle più importanti iniziative di educazione degli adulti degli ultimi vent’anni. Adottato come modello per l’istruzione degli adulti dalla Regione Toscana nel 2009, ha influenzato la stesura dell’attuale legge nazionale. E io, che nel frattempo sono entrato a far parte del gruppo ministeriale per la redazione delle linee guida, sono diventato professionista delle policy dell’istruzione degli adulti, della formazione degli insegnanti e dell’uso delle tecnologie digitali per la didattica.
Non è una questione di gratitudine (per quanto io sia profondamente grato a tutti i miei maestri): se sento la necessità di dire certe cose è perché in questa fase della vita politica italiana io soffro soprattutto la virulenza con cui certe persone – che si identificano con interi movimenti e partiti politici – sono propense a fare intorno a loro terra bruciata. I rottamatori e i vaffanculisti – mi si perdoni il neologismo – turbano il mio senso di comunità, e la mia cultura del “potere personale”, per usare una definizione cara a Carl Rogers. Una visione dell’uomo come organismo fondamentalmente degno di fiducia, e una visione della comunità come un ambiente di apprendimento in cui ciascuno dovrebbe poter sviluppare le proprie potenzialità, mobilitare le proprie risorse. Si chiama anche solidarietà, e si coltiva attraverso le relazioni interpersonali, con l’istruzione, la formazione e l’orientamento, e poi con il lavoro. E anche questo l’ho imparato grazie alla mia maestra e a un altro maestro, Enzo Capitani, di cui ora non potrei e non saprei parlare.
Dopo l’esperienza del diploma online, che dal 2006 ha dato l’opportunità di diplomarsi a centinaia di persone che non ne avrebbero avuto la possibilità, la signora Morelli ha lavorato assiduamente alla creazione di corsi universitari che si avvalessero delle stesse metodologie. Adesso che lei è presidente del Polo Universitario Grossetano, grazie all’iniziativa dell’Università di Siena e alla collaborazione di molte persone che hanno creduto in quell’intuizione, nella mia città è possibile frequentare corsi di laurea in modalità mista (si chiama blended learning) facendo ricorso a metodi tradizionali di insegnamento e alle tecnologie digitali. È anche in questo modo che si aumentano le opportunità di scelta e di autodeterminazione dei cittadini.
A volte ho l’impressione che sia un concetto difficile da far capire a coloro che conservano una visione elitaria dell’istruzione. Così come c’è chi pensa che il liceo sia migliore del tecnico, e il tecnico del professionale, ancora oggi c’è chi pensa che l’università più antica sia migliore della nuova, la più grande della piccola, e la più lontana di quella vicina. E poi ci sono quelli che credono che tutto sia da cambiare, e invece si tratterebbe solo di scegliere cosa salvare e cosa lasciare, e poi di smettere di resistere al cambiamento. Perché il cambiamento è inevitabile, e non aspetta certo che qualche fanatico del rinnovamento o, peggio, dell’antipolitica, vinca le prossime elezioni.

Un commento

  1. meno male che c’è ancora qualcuno degli intellettuali dotato di spirito di servizio e di un progetto di vita non autoreferenziali. L’Italia va ancora avanti grazie a uno straordinario sottobosco di volontari che hanno una visione non narcisistica della vita: direi un forte senso religioso. un abbraccio da un’amica che ti stima molto

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