All’inizio dell’estate, la traduttrice e editrice Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini, l’ideatore e curatore del blog-mag Arcipelago Itaca, mi chiedono di scrivere un’introduzione alla lettura del libro di poesia Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni (Roma, Donzelli, 2016). Ecco, io l’ho scritta. È uscita oggi insieme a molte altre cose interessanti su Arcipelago Itaca (scarica qui il numero). Si intitola Meglio amare, meglio scrivere, e la riporto di seguito.
MEGLIO AMARE, MEGLIO SCRIVERE
“Nella Londra degli anni Cinquanta non era facile, e nemmeno sicuro, essere un omosessuale dichiarato o praticare l’omosessualità; se scoperte, tali attività potevano portare a pene severe, all’incarcerazione o, come avvenne nel caso di Alan Turing, alla castrazione chimica mediante somministrazione obbligatoria di estrogeni. Le posizioni dell’opinione pubblica erano, nel complesso, di condanna come quelle della legge”. Ho cominciato a leggere Avrei fatto la fine di Turing con queste parole di Oliver Sacks ancora in mente. Fresco di lettura di In movimento (On the Move. A Life, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi 2015), mi è stato sufficiente aprire il libro di Buffoni e scorrerne l’indice per capire che mi sarei trovato coinvolto in un grumo di cognizioni ed emozioni simile a quello che avevo ancora in mente e nel corpo dopo aver letto l’autobiografia di uno dei miei intellettuali prediletti, della cui vita privata fino a quel momento non sapevo niente fino a quando, all’improvviso, mi sono trovato immerso in scene come questa:
«Non sembra che tu abbia molte ragazze» disse. «Non ti piacciono?».
«Ma sì, mi vanno benissimo» risposi io, desideroso di chiudere la conversazione.
«Preferisci forse i ragazzi?» insistette lui.
«Sì – ma è solo una sensazione – non ho mai “fatto” niente». E poi aggiunsi, timoroso: «Non dirlo a mamma, non lo sopporterebbe».
Invece mio padre glielo disse, e il mattino dopo lei scese con la faccia stravolta dalla collera, una faccia che non le avevo mai visto prima. «Sei abominevole» disse. «Vorrei che tu non fossi mai nato». Poi se ne andò e non mi parlò più per diversi giorni.
Una situazione che solo uno scrittore laico e profondamente permeato di cultura scientifica poteva risolvere – con grande sollievo del lettore – con un ragionamento sul potere dell’educazione e della cultura:
Siamo tutte creature della nostra educazione, della nostra cultura e dei nostri tempi. E io ho avuto più volte bisogno di ricordare a me stesso che mia madre era nata negli anni Novanta dell’Ottocento, che aveva avuto un’educazione ortodossa e che nell’Inghilterra degli anni Cinquanta il comportamento omosessuale era trattato non solo come una perversione, ma come un reato perseguibile. Devo anche ricordare che il sesso è una di quelle materie – come la religione e la politica – in cui persone altrimenti moderate e razionali possono nutrire sentimenti intensi e irrazionali. Mia madre non intendeva essere crudele o augurarmi la morte. Adesso mi rendo conto che era stata presa alla sprovvista e sopraffatta, e che probabilmente rimpianse le parole che aveva pronunciato o forse le segregò in una parte isolata della sua mente.
Esse però mi tormentarono per buona parte della mia vita ed ebbero un ruolo fondamentale nell’inibirmi e permeare di sensi di colpa quella che avrebbe dovuto essere un’espressione libera e gioiosa della sessualità.
Armato di questa storia, ho cominciato dunque ad aggirarmi nei dintorni del libro di Buffoni, consapevole – me lo dicevano il prestigio della collana editoriale, la complessità dell’indice, la cura del peritesto, lo stesso titolo, incisivo al limite della violenza – di trovarmi di fronte a un testo importante, forse decisivo per la carriera di uno scrittore che da alcuni anni cerca di fondere autobiografismo – sempre più narrativo, sempre meno criptato – e saggistica, azione poetica e azione politica.
Nelle Note in fondo al libro si può trovare la chiave di accesso (una delle chiavi, poiché ciascuno entra ed esce da qualunque varco riesca a individuare), l’amore filiale, il rapporto di un figlio con i suoi genitori e, più in generale, di un giovane con le figure adulte di riferimento. Un uomo (un bambino, un ragazzo e poi un adulto) che fa i conti con l’educazione dei propri genitori, con la loro cultura, che, più o meno subdolamente – attraverso il canale privilegiato delle emozioni amorose – irretisce, forma, orienta e vincola la vita che sta cercando una sua definizione.
Franco Buffoni sa – e lo dice nelle Note – che suo padre non sarebbe mai stato in grado di accettare la sua omosessualità e, se il figlio l’avesse esplicitata, avrebbe certamente provveduto a farlo “curare”, con la complicità della moglie e madre (della sua “pavida e sottomessa acquiescenza”). E Franco avrebbe fatto la fine di Turing, appunto, prima messo alla berlina, già condannato all’atto stesso dell’accusa, e poi recluso – anche se in un luogo di cura, in un manicomio per esempio – e infine suicida. Perché quella degli anni Cinquanta e Sessanta – e anche per tutti i Settanta – è una società che non esita a mettere le mani addosso a una persona, se ritiene che quella persona sia semplicemente sbagliata. E i genitori altro non sono che la famiglia, la cellula della società, chiamata a dare forma all’individuo, a prepararlo a farsi a sua volta cellula, anche – anzi, necessariamente – a prezzo della sua libertà individuale.
E così, sembra quasi naturale – e invece va considerata una scelta straordinaria, potente, rivoluzionaria – trovare all’inizio del libro, in prima posizione, una poesia che si intitola Per placare Monaldo: il figlio migliore della civiltà letteraria italiana a confronto con il suo aguzzino e coi suoi alleati.
Occorre fingere per placare Monaldo
Abbozzare
Smettere di accusare il vecchio tonto
Di clericale codinaggio,
Piuttosto concentrarsi sullo Stato di Milano
Sulla cultura libertina
Di Settala e Cardano
Tra scienza e medicina… O meglio
Su ciò che è stato lo Stato di Milano…
Perché dal catechista amico del Giusti
V’è ormai ben poco da aspettarsi,
Palese è il voltafaccia,
Col ritorno dei viennesi s’è dato
Alla distribuzione del viatico agli infermi
E agli inni sacri.
È Leopardi contro Manzoni, il contino Giacomo – la vittima per eccellenza di una genitorialità-prigione che non prevedeva fine, destinata a durare per sempre, fino alla morte o alla fuga – contro il conte Alessandro, l’amico del Giusti, da cui nulla ci si può aspettare. È, anche, la cultura laica e liberale, individualista, contro la cultura cattolica e clericale. Parafrasando una celebre canzone inglese degli anni Ottanta (“Keats and Yeats are on your side / While Wilde is on mine”, The Smiths, Cemetery Gates, 1986), potremmo cantare, mettendoci nei panni dell’io lirico che si rivolge al padre, che “Manzoni è dalla tua parte, ma Leopardi è dalla mia”. Da una parte l’amore libero, che trae origine dai sensi, dal corpo senziente, dall’altra l’amore controllato, sottomesso ai bisogni di sicurezza di una parte della società. L’amore che travolge e trasforma contro l’amore che moltiplica e conserva.
La prima parte del libro è ingombrata dal padre di Franco, Piero Buffoni (1914-1980), di volta in volta interlocutore (in absentia) o personaggio protagonista di una piccola saga familiare in cui gli tocca recitare la parte del “babbo” e poi, più avanti, del marito, portando così sulla scena l’altra protagonista di questo Avrei fatto la fine di Turing, la madre.
Così apro il libro al contrario e trovo un altro inizio: l’ultima poesia, Perché io che per te da bambino.
Perché io che per te da bambino
Un piccolo dio ero stato
E crescendo Cristo-Mercurio
Con te Venere-Maria,
Poi divenni il tuo
Padre e marito
Pur restandoti figlio,
Nella nostra costellazione famigliare
Per trent’anni al sole giocando
Sorgente
Con te luna calante.
Trent’anni, dal 1980 al 2010, sono gli anni che separano la morte del padre da quella della madre. È la storia di una lenta trasformazione del figlio in padre e marito, della madre in figlia e moglie. Ed è ancora un dialogo coi morti, disturbati stavolta affinché ascoltino la storia di una lunga relazione di cura parentale.
La storia di una vita – e del rapporto cruciale di tutta una vita – narrata nel breve spazio di undici versi, grazie anche a quei due composti quasi alchemici, Cristo-Mercurio e Venere-Maria, che costringono il lettore a leggere e rileggere il testo alla ricerca di ulteriori spiegazioni. Seguendo la pista della Venere-Maria, per esempio, possiamo ritrovarci a Milano, alla Pinacoteca di Brera, dove si trova la pala in cui Piero della Francesca ha rappresentato una Madonna sovrastata da una grande conchiglia a cui è appeso un uovo di struzzo (o una perla?), quasi fosse una nuova nascita di Venere. È la bellezza che non perisce, ed è anche la capacità di generare senza alcun intervento maschile (in barba all’eterosessualità). Cristo-Mercurio, invece, rimanda alla tradizione alchemica e alle nozze tra Sole e Luna, il cerchio (lo spirito maschile, la capacità di conferire all’anima una coscienza individuale) e la coppa, a forma di falce di luna (lo spirito femminile, la vitalità e la fecondità).
È così che io mi sono avventurato nel corpo del libro, dopo averne letto la testa e la coda, il padre e la madre, i due princìpi che solo raramente si incontrano (forse perché le famiglie non sono luoghi ameni: “Muoiono i nostri cari / Lasciandoci i resti dei loro / matrimoni sbagliati”), e sempre con risultati straordinari, come nel caso in Ghiani-Fenaroli, capolavoro di poesia civile.
Un tempo, negli anni Ottanta, i critici dicevano, giustamente, che la poesia di Buffoni aveva ascendenze laforghiane, palazzeschiane, poiché dissimulava con l’ironia – e anche con la voluta opacità del discorso – il motivo di fondo della sua scrittura. Oggi, invece, potremmo dirla una poesia leopardiana, che riesce a cantare la vita senza infingimenti, la propria vita, ridotta in episodi, ricordi, stralci a partire dai quali, grazie a una versificazione che non esiterei a definire classica (sia pure di un classicismo interno alle logiche e alla storia del verso liberismo), è possibile costruire una visione del mondo, un sistema – rigorosamente asistematico – di pensiero. L’augurio è che attraverso la lettura sia possibile che le immagini, le storie, le metafore si innestino nella mente e nel corpo di chi legge. E poi, a partire da lì, possano originare un pensiero autonomo, libero, autenticamente poetico e democratico.