Il 27 luglio Giovanni Nadiani mancherà alla cultura e alla vita civile italiana da un anno. Mi preparo pubblicando un brano tratto da un libro sulla poesia degli Ottanta che uscirà prossimamente. Ciao Giovanni.
E’ sech è il primo libro di poesia di Giovanni Nadiani (Faenza, Moby Dick, 1989). I libri precedenti sono quasi dei quaderni preparatori, che trovano compimento in questo volume del 1989 e poi, per le traduzioni, nell’antologia dei poeti bassotedeschi del 1990, Per abbandonati selciati, e per le prose brevi in Nonstorie, 1992. Per quanto il libro di poesia più importante, quello che connoterà Nadiani come autore di poesia «esistenziale» (M. Manganelli), «etica» (G. D’Elia), che parla «del nostro stare al mondo» (F. Santi), sia il secondo, TIR, del 1994, è in E’ sech che troviamo già squadernati gli elementi fondamentali della poesia successiva. Intanto, in E’ sech convivono forma breve – il quasi haiku, l’aforisma in versi, che arriverà a compiutezza nel 2000 con Beyond the Romagna Sky – e forma lunga, il poemetto, che trova la sua realizzazione in Sens, ancora del 2000. Inoltre, E’ sech è il libro che dà a Nadiani la possibilità di far sentire, nel vero senso della parola, la propria voce. Accompagnato spesso dalla musica, Nadiani pratica la lettura ad alta voce nei contesti più disparati, portando sulla scena ripetutamente, per molti anni, i suoni monosillabici e sibilanti di queste prime poesie e, poi, delle altre. Il successo di E’ Sech è tale da meritare, nel 2007, la stampa di una trasposizione orale, il cd intitolato The best of e’ sech, con musiche composte ed eseguite dal gruppo jazz Faxtet.
In un suo intervento del 2001 Nadiani afferma che la letteratura – la lettura di una determinata opera letteraria – ci consente di riconoscerci, noi lettori, in una «“voce” che non ci lascerà mai più, che indirizzerà la nostra storia in un ben determinato stile di vita». Anticipando di qualche anno le ricerche di Marielle Macé sul rapporto tra stile di vita e stili di lettura e sul ruolo orientativo della letteratura, Nadiani invita a riflettere sul potere dell’esperienza estetica, sulla sua capacità di «mediare un’immagine, un modo di vedere le cose alternativo alla falsa realtà comunicata dai mass-media», di «ampliare la coscienza». La fruizione della letteratura rende possibile l’incontro con l’altro, con un’altra voce, e non solo in senso metaforico, sostiene Nadiani nel seguito del suo intervento.
La voce in quanto phonè, comunione di fiato e discorso, implica un ascoltare, ed è quindi di per sé un fatto sociale: «Radicalmente sociale al pari che individuale – ha scritto Paul Zumthor in un saggio ben presente a Giovanni Nadiani –, la voce segnala il modo in cui l’uomo si situa nel mondo e rispetto all’altro. Parlare implica infatti un ascoltare […] è una procedura duplice in cui gli interlocutori ratificano insieme dei presupposti fondati su un’intesa, di solita tacita ma sempre (all’interno di uno stesso ambiente) attiva» (La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1984, p. 30). Per Nadiani, dunque, la presenza della voce è un’allegoria della sua personale utopia, poiché è in quella condizione, quando, sempre secondo Zumthor, gli ascoltatori sono co-autori, «pronti a spartire con te [l’autore, colui che legge] una storia comune in un luogo comune, in cui “per chi parla o canta, si scioglie una solitudine, e si stabilisce una comunicazione”». Questo era, è il sogno di Nadiani espresso nel suo articolo Milano a Kansas City (2001): «Ma se la letteratura ci anima, ci attraversa, è nostra parte fondante, non hobby domenicale né soltanto mestiere, bensì quella passione di cui si diceva che contempera un’esperienza/visione del mondo e uno stile di vita afferenti alla libertà, alla gratuità, alla solidarietà dei testi, alla loro sobrietà e lentezza nel maturare e nel maturarci, allora la domanda di dove radicare questa passione – e qui abbandonando i territori astratti, trasfigurati e misticheggianti vengo gradualmente alla vicenda personale che si vuole sentir narrare – può avere solo una risposta: il sogno del luogo»., la costruzione di un «luogo comune», di «Uno spazio in cui possano crearsi i presupposti dell’incontro che continua a segnarci, in cui venga abolita non solo quella separatezza tra sé, il testo e il lettore, ma anche quella tra un autore e l’altro, in cui mettere in relazione autori con altri autori in una sorta di intertestualità di produttori inserentesi in un’esile ma non per questo meno tenace trama di nuovi spazi di ricezione in un determinato territorio». La voce è lo strumento che rende possibile realizzare quel sogno:
Ecco la «voce», è attorno ad essa che si crea in forme e misure diverse (a seconda che sia dal vivo, o mediata cioè trasmessa da un supporto), il barlume di una sorta di luogo di una comune diversità, di socialità, altrimenti solo immaginarie; il luogo, in cui – come sostiene il filosofo Rocco Ronchi – «quando una parola funziona, quando una comunicazione accade […] sentiamo, per un istante almeno, il brivido di un’esistenza condivisa».