“noi in attesa di ricordarti di dimenticarti” (Bertolucci e Pasolini)

Qualche anno fa il Liceo Bertolucci di Parma mi chiese di scrivere qualcosa sul rapporto tra Attilio Bertolucci, il poeta a cui la scuola era intitolata, e Pier Paolo Pasolini. Accettai, e per approfondire quella relazione – fondamentale per la cultura italiana contemporanea – andai per archivi, lessi e rilessi le loro opere e andai a spasso per Roma, alla ricerca delle loro tracce.

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L’incontro tra Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini avviene, stando a quanto racconta lo stesso Bertolucci, nella casa di via del Tritone, sollecitato dal comune amico Bassani. Scrive Attilio: 

… un giorno Giorgio Bassani mi portò al quinto piano della casa di via del Tritone dove allora provvisoriamente abitavo un giovane dai tratti somatici incisi, l’asciutto corpo di sportivo coperto da un maglione di lana ruvida, di tipo vagamente finlandese, con figure di cervi e di renne. Il giovane senza quasi parlare mi passò un ritaglio di giornale sul quale era stampata una recensione al mio libro, molto generosa. L’articolo era firmato Pier Paolo Pasolini, nome che alla presentazione di Bassani non avevo ben afferrato. Quando gli dissi che nel ’42 avevo letto Poesie a Casarsa, comprate da un noto librario antiquario di Parma più esperto di Bodoni che di poesia giovane, parve meravigliarsi moltissimo, non dico compiacersi. Da allora fra noi nacque una grande amicizia fatta di poche parole (forse per colpa di entrambi, più capaci di dialoghi, anche approfonditi, ma a distanza, che di conversazioni fitte) e di grande – credo di poterlo dire – comprensione reciproca. [Tratto da S. Cherin, Attilio Bertolucci. I giorni di un poeta, Milano, La Salamandra, 1980]

La recensione su «Il Giornale» esce il 18 agosto 1951, per cui l’incontro, che Bertolucci attribuisce alla «tarda primavera del ’51», dovrebbe risalire alla fine dell’estate. Apprendiamo dalla corrispondenza conservata nel Fondo Pasolini all’Archivio «A. Bonsanti» del Gabinetto Vieusseux di Firenze che l’inizio del rapporto tra i due risale al mese di marzo, quando ancora Bertolucci si trova ancora a Parma e scrive una lettera a Pasolini a proposito di un dattiloscritto che aveva ricevuto da Bassani. Bertolucci, redattore di «Paragone», avrebbe voluto, infatti, pubblicare alcuni testi dell’autore di Poesie a Casarsa, il quale, per il tramite di Bassani, aveva proposto Romans. Ma il testo, troppo lungo, è giudicato inadeguato a una pubblicazione in rivista, e ora Pasolini rivorrebbe indietro il dattiloscritto. Con la sua lettera Bertolucci chiede dunque a Pasolini di inviare «subito» delle poesie o un racconto breve per il successivo numero della rivista. Il testo si chiude con l’auspicio di conoscersi finalmente a Roma la settimana successiva [Lettera da Baccanelli (Parma) del 14 marzo 1951, Archivio «A. Bonsanti», Fondo Pasolini, segnatura IT ACGV PPP. I. 114 1]. Il 10 aprile Bertolucci, residente ormai in via del Tritone a Roma, scrive ancora a Pasolini per raccontare del suo trasferimento e per auspicare nuovamente un incontro: «Ora dunque ci si potrà vedere, scegliere insieme le poesie per Paragone, e vedere che altro potrebbe darci, racconti o saggi». Nella lettera da Casarola di Monchio, Parma 6 agosto 1951, Bertolucci comunica a Pasolini l’invio di un assegno da parte di «Paragone», evidentemente per la pubblicazione di Il Ferrobedò, il primo nucleo del romanzo Ragazzi di vita, nel giugno del 1951. Ancora si danno del lei. Bertolucci chiude la lettera così: «Credo che sarò a Roma a settembre, e ci vedremo». Non sappiamo se ancora si sono incontrati di persona, nella tarda primavera dell’anno. Di certo al rientro di Bertolucci a Roma il rapporto tra i due si stringe – forse è adesso che avviene l’incontro raccontato da Attilio – e assume i caratteri di una profonda e duratura amicizia.

Intanto, fin da subito il rapporto si rivela proficuo per entrambi, sia sul piano umano, sia su quello più propriamente professionale. Bertolucci, insieme al comune amico Giorgio Caproni, è uno dei frequentatori più assidui della casa romana dei Pasolini, contribuendo a smorzare la durezza della vita di Pier Paolo. Così racconta lo stesso Pasolini a Gianfranco Contini nel 1953: 

Ora vivo a Roma con mia madre e mio padre (in parte guarito dal suo male, o, perlomeno trattato – come tratta una mina carica – secondo il suo male: adesso è quasi commovente come vive di me); lavoro come un negro, facendo scuola a Ciampino (20000 mensili!) dalle sette del mattino alle tre del pomeriggio, e lavoro anche abbastanza alle mie cose, cioè soprattutto a un romanzo, Il Ferrobedò: lasciato un po’ in disparte, tradito, Penna, sono ora molto amico di Caproni e Bertolucci (li conosce di persona? sono quel che si dice due perle) e, benché con assai meno frequentazione, di Gadda […]. [Lettera da Roma, 21 gennaio 1953, in P.P. Pasolini, Lettere. 1940-1954, a c. di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, pp. 534-35].

Bertolucci, redattore di «Paragone» e direttore della collana «La Fenice» di Guanda, offre a Pasolini il primo contratto editoriale per una Antologia della poesia dialettale del Novecento, uscita nel dicembre del 1952. È il primo lavoro editoriale di Pasolini, riconosciuto da subito come fondamentale da Eugenio Montale. A questo contratto ne segue un altro, nel 1953, per un Canzoniere italiano, uscito nel 1955.

Ancora a Bertolucci, inoltre, si deve il contratto stipulato tra l’autore Pasolini e l’editore Garzanti. Racconta Attilio che in occasione dell’uscita di un’anticipazione del romanzo Ferrobedò (il futuro Ragazzi di vita) su «Paragone», di aver presentato l’amico Pier Paolo a Livio Garzanti, il quale propone a Pasolini di lasciare la scuola e di scrivere per la sua casa editrice:

[…] facevo pigramente il talent-scout per Livio Garzanti e combinai un incontro del giovane scrittore col giovane editore, Pier Paolo, ci chiamavamo già per nome, abitava vicino a me a Monteverde Vecchio, ora, in una casa abbastanza spaziosa e borghese: insegnava, potevano contare sul suo mensile oltre che sulla pensione del padre, in famiglia. Era appena stato pubblicato su «Paragone» il suo racconto Ferrobedò e io lasciai una copia della rivista in albergo a Garzanti perché la leggesse. Garzanti, entusiasta, volle vedere Pasolini. Appena lo salutò, finse di snobbarlo; poi, all’improvviso, gli disse di smettere di insegnare, voleva il suo romanzo entro un anno, voleva tutti i suoi libri. Gli avrebbe dato intanto il doppio di quanto guadagnava alla “media” di Centocelle, che egli raggiungeva con chissà quali mezzi alzandosi prestissimo. Così Pier Paolo poté scrivere con un certo agio Ragazzi di vita. [A. Bertolucci, Primo e ultimo incontro con Pier Paolo, in Id.,Aritmie, Milano, Garzanti, 1991, pp. 160-61, poi raccolto in Id., Opere, a c. di P. Lagazzi e G. Palli Baroni, Milano, Mondadori, 1997, pp. 1134-36, a p. 1135].

Pasolini nell’aprile del 1954 si trasferisce a Monteverde Vecchio, in via Fonteiana 86, vicino alla casa dei Bertolucci e di Giorgio Caproni (come scrive lo stesso Piero Paolo a Franco Farolfi il 26 aprile dello stesso anno: «Come vedi ho cambiato casa, in un posto delizioso e dignitoso» [Lettere 1940-1954 cit., p. 658]).

Al momento in cui, il 6 novembre, scrive la sua prima lettera a Livio Garzanti, sembra che l’incontro di cui racconta Bertolucci sia già avvenuto:

Gentile Dottore, 

Bertolucci mi dice che Lei aspetta che mi faccia vivo. Ma come? Mi sento un po’ imbarazzato, per tante ragioni. Le avevo promesso un racconto lungo Le zoccolette del Mandrione, e, forse, nel caso che fossi riuscito a vincere i miei antiquati e ingenui scrupoli, Il ferrobedò. Ma, a parte gli scrupoli, non ho il tempo che si dice materiale per lavorare. [Lettere. 1940-1954 cit., p. 700].

Pasolini, dopo aver insistito sulle difficoltà economiche, si decide a inviare insieme alla lettera il testo di Regazzi di vita, il futuro capitolo quarto del romanzo, uscito su «Paragone» nell’ottobre del 1953. Da questo momento la corrispondenza tra Pasolini e l’editore si infittisce. Garzanti riesce a mettere sotto contratto l’autore di Ragazzi di vita, che ottiene un anticipo di diritti d’autore sotto forma di stipendio mensile a partire. Il romanzo, consegnato il 13 aprile e uscito all’inizio di giugno 1955, ha un immediato successo di critica e di vendite, precedente di alcuni mesi il processo intentato contro l’autore e l’editore per oscenità.

È in quest’occasione che il rapporto tra Bertolucci e Pasolini conosce un vero e proprio salto di qualità. Attilio, infatti, probabilmente avvisato da Garzanti, si fa carico di dare la notizia del processo a Pier Paolo durante un incontro a Monteverde Vecchio che è immortalato da Pasolini nella poesia Recit, scritta nel gennaio del 1956, poi pubblicata nelle Ceneri di Gramsci (Garzanti 1957): 

Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…

Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te…

In questo stesso periodo, sul numero del mese di dicembre di «Paragone», Pasolini pubblica un fondamentale saggio intitolato Elegia? (Bertolucci, Volponi, Cavani),  poi ripreso in  Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, col titolo Bertolucci. Lo studio, scritto in occasione dell’uscita della seconda edizione accresciuta di La capanna indiana, può essere considerato il caposaldo della critica bertolucciana, poiché ha messo a disposizione dei professionisti della letteratura e dei lettori italiani i concetti chiave utilizzati per parlare di questa poesia e per collocarla nella storia della letteratura del Novecento: l’inattualità di Bertolucci rispetto all’ermetismo dominante negli anni della formazione, l’ideologia conservatrice e illuminata, l’appartenenza alla linea antinovecentesca della poesia italiana. 

Annunciata da Attilio a Pier Paolo nel 1958, su «Officina» del marzo 1959, la poesia Piccola ode a Roma è il primo testo di Bertolucci dedicato a Pasolini (in una cartolina di Bertolucci a Pasolini da Parma [s.d., con timbro Bologna-Teatro Comunale Stagione Lirica 6 novembre-26 dicembre 1958, Fondo Pasolini, IT ACGV PPP. I. 114.22] si legge: «Caro Pierpaolo, | ho scritto, per te, una piccola ode a Roma»).

Si tratta di una vera e propria ode rivolta a Roma: tre strofe di dieci versi lunghi non rimati, più un verso di chiusura. Le prime due strofe mettono in scena il risveglio della città, durante una mattina di novembre: «Ti ho veduta una mattina di novembre, città / svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere, / […]»; con la terza strofa la descrizione pittorica lascia spazio a una lunga riflessione sui poeti ‘esuli’ dall’Italia settentrionale (la Mantova di Virgilio e la Verona di Catullo) a Roma:

Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate dai geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

Con questa poesia si apre una nuova prospettiva nel dialogo tra Bertolucci e Pasolini, che d’ora in avanti non può prescindere dal tema del distacco dal nord, ma anche della fine del mondo contadino – friulano o appenninico, non fa differenza – e del sud come prospettiva, destino. 

A seguire, Pasolini scrive l’epigramma A Bertolucci, uno dei Nuovi epigrammi (datati 1958-59) del libro La religione del mio tempo (1961):

Sopravvivenza: anch’essa. Essa, la vecchia campagna,
ritrovata, quassù, dove, per noi, è più eterna.
Sono gli ultimi giorni, o, è uguale, gli ultimi anni,
dei campi arati con le file dei tronchi sui fossi,
del fango bianco intorno ai gelsi appena potati,
degli argini ancora verdi sulle rogge asciutte.
Anche qui: dove il pagano fu cristiano, e con lui
la sua terra, il suo campo coltivato.
Un nuovo tempo ridurrà a non essere tutto questo:
e perciò possiamo piangerlo: con i suoi bui
anni barbarici, i suoi romanici aprili.
Chi non la conoscerà, questa superstite terra,
come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?
Ma siamo noi che dobbiamo capire lui,
perché lui nasca, sia pure perso a questi chiari giorni,
a queste stupende stasi dell’inverno,
nel Sud dolce e tempestoso, nel Nord coperto d’ombra…

Nel giugno del 1959 Pasolini trasloca nel palazzo dei Bertolucci in via Giacinto Carini 45, dove rimane fino al marzo del 1963. Gli anni difficili e avventurosi della fuga a Roma e della scoperta delle borgate sono ormai lontani: Pasolini è uno scrittore riconosciuto dagli intellettuali italiani e dal pubblico dei lettori, in grado di condurre una vita da borghese grazie ai proventi della sua arte di scrittore. 

Questi quattro anni che trascorre a fianco della famiglia Bertolucci, soprattutto, si rivelano fondamentali per la formazione e l’affermazione del futuro regista Bernardo, che nel 1955 ha quattordici anni e manifesta un precoce talento poetico.

Così racconta lo stesso Bernardo Bertolucci: 

Tutto era cominciato poco dopo l’arrivo a Roma della mia famiglia, nei primi anni Cinquanta. Una domenica sul finire della primavera, dopo pranzo, vado ad aprire la porta della nostra porta di casa di via Carini 45. C’è un giovane con gli occhiali neri, il ciuffo un po’ malandro, il vestito scuro della festa, camicia bianca, cravatta. Con tono fermo e dolce mi dice che ha un appuntamento con mio padre. Qualcosa di soave nella sua voce, e soprattutto quello che mi sembra un travestimento fin troppo domenicale, mi mettono in stato di allarme. Mio padre sta riposando, chi è lei, mi chiamo Pasolini, vado a vedere. Richiudo, lasciandolo fuori sul pianerottolo. Mio padre si sta alzando, gli racconto tutto, lui dice di chiamarsi Pasolini ma secondo me è un ladro, l’ho chiuso fuori. Come ride mio padre! Pasolini è un bravissimo poeta, corri ad aprire al porta. Mostruosamente intimidito e con le guance infuocate lo feci entrare. Lui mi guardò con una tenerezza che nessuno avrebbe potuto mai raccontare. Lui sapeva, io no, che «non c’è disegno del carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima», come scrisse molti anni dopo. Quella notte sognai che dentro il giovane poeta si celava in realtà il cow-boy in nero del Cavaliere della valle solitaria: nel sogno Pasolini e Jack Palance si fondevano in un unico teschio lucente. Sarebbero passati molti anni prima che io capissi che in quel momento, su quelle scale, avevo evocato e materializzato l’essenza del mito, per affidargli l’essenza della mia anima e del mio cuore, ciecamente, come può permettersi solo un quattordicenne. [B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria, in P.P. Pasolini, Per il cinema, a c. di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, t. I, pp. xiii-xiv].

Pasolini è anch’egli colpito dalla personalità dell’adolescente Bernardo, futuro destinatario e protagonista di una delle poesie della sua seconda raccolta poetica in lingua italiana: La religione dei mio tempo. A un ragazzo, uscita per la prima volta nel 1958 su «Botteghe oscure», è una lettera in distici rimati, lo stesso metro usato per Recit. Nella poesia, che sembra ambientata nel salotto di casa Bertolucci durante un incontro tra amici, è presente ancora una volta Attilio:

Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,

vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento

alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,

vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,

ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia…

Rimani tra noi, discreto per pochi minuti
e, benché timido, parli, con i modi già acuti

dell’ilare, paterna e precoce saggezza. 

Ed è ancora Bernardo a fornirci un quadro esaustivo di quell’ambiente stimolante e fecondo:

Nel ’59 la famiglia Pasolini (Pier Paolo, Susanna e Graziella Chiarcossi) si trasferisce in via Carini 45. Noi abitiamo al quinto piano, loro al primo. Ricominciai a scrivere poesie per poter bussare alla porta di Pier Paolo e fargliele leggere. Appena ne avevo scritta una scendevo le scale a grandi balzi con il foglio in mano. Lui era rapidissimo nella lettura e nel giudizio. Il tutto non durava più di cinque minuti. Quegli incontri cominciai a chiamarli dentro di me momenti privilegiati. Ne uscì un mucchietto di poesie che Pier Paolo, tre anni dopo, mi incoraggiò a pubblicare. Chissà cosa pensò mio padre, degradato senza spiegazione a lettore numero due. 

Arriva la primavera del ’61 e Pasolini, incontrato sul portone, mi annuncia che dirigerà un film. Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista. Non ne sono capace, non ho mai fatto l’aiuto. Neanch’io ho mai fatto un film, tagliò corto. [B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria cit., pp. xiv-xv].

Accattone, il primo film di Pasolini, esce nelle sale nel 1961. Bernardo, che aveva già girato due cortometraggi (La teleferica nel 1956 e La morte del maiale nel 1957), nel 1962 si dedica al suo primo lungometraggio, La commare secca, soggetto di Pasolini, sceneggiatura dello stesso Bernardo Bertolucci e di Sergio Citti. Nello stesso anno pubblica per Longanesi il suo primo e unico libro di poesie, In cerca del mistero, recensito da Pasolini su «Terzo Programma» del gennaio-marzo 1962. Anche in quest’occasione egli non manca di associare il figlio al padre Attilio, finendo per lasciarci un ritratto di entrambi:

Certo è un caso straordinario quello di Bernardo: la sua straordinaria fedeltà al padre – lo stesso distacco, quasi fatale, nella sua dolcezza nell’adoperare parole e versi, come per un gioco di eleganza suprema e insieme decisiva per poter vivere. E, concomitante a questa straordinaria fedeltà, atavica e sociale, la sua polemica col padre.

È in questo periodo, inoltre, che Pasolini ha occasione di visitare il paese d’origine dei Bertolucci, Casarola, sull’Appennino di Parma, come attesta la prima parte della poesia La Guinea, scritta nel febbraio del 1962 e pubblicata, prima in forma orale e poi su rivista, rispettivamente nei mesi di maggio e giugno dello stesso anno: «Camminando per questa poverissima via / di Casarola […]». La poesia sembra riprendere il discorso avviato con l’epigramma A Bertolucci per ampliarlo a un contesto globale. Ancora una volta Pasolini sembra proseguire il discorso critico avviato con il saggio del 1955, attribuendo a Bertolucci il ruolo di interlocutore privilegiato per questo suo ragionamento e racconto sulla negritudine e sulla fine del mondo contadino:

A volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
Camminando per questa poverissima via

di Casarola, destinata al buio, agli acri
crepuscoli dei cristiani inverni,
ecco farsi, in quel pianto, sacri

i più comuni, i più inermi
aspetti della vita: quattro case
di pietra di montagna, con gli interni

neri di sterile miseria – una frase
sola sospesa nella triste aria,
secco odore di stalla, sulla base

del gelo mai estinto – e, onoraria,
timida, l’estate: l’estate, con i corpi
sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,

disposti sulle chine – come storpi
o giganti – dalla sola Bellezza.
Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti

profili del fogliame, che si spezzano,
riprendono il motivo d’una pittura rustica
ma raffinata – il Garutti? il Collezza?

Non Correggio, forse: ma di certo il gusto
del dolce e grande manierismo
che tocca col suo capriccio dolcemente robusto

le radici della vita vivente: ed è realismo…
Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto
che vi si scava in mezzo, come un crisma,

odora una pioggia cotta dal sole, poco:
un ricordo della disorientata infanzia.
E, lì in fondo, il muricciolo remoto

del cimitero. So che per te speranza
è non volerne, speranza: avere solo
questa cuccia per le mille sere che avanzano

allontanando quella sera, che a loro,
per fortuna, così dolcemente somiglia.
Una cuccia nel tuo Appennino d’oro.

Poi, all’improvviso, al verso 40, all’universo di Casarola viene accostato quello della Guinea, la nazione africana che Pasolini visita per la prima volta nel gennaio 1963 e che in questo testo del febbraio 1962 – al ritorno dal suo secondo viaggio africano – è usata come metonimia dell’Africa intera e del cosiddetto Terzo Mondo, un concetto nuovo che si afferma in seguito alla conferenza afroasiatica di Bandung (18-24 aprile 1955), come si evince dal saggio La Resistenza negra del 1961:

[…] il concetto «Africa» è il concetto di una condizione sottoproletaria estremamente complessa ancora inutilizzata come forza rivoluzionaria reale. E forse si può definirlo meglio, questo concetto, se si identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. Non dimentichiamoci che a Torino ci sono delle scritte sui muri che dicono «Via i Terroni = Arabi»… In tal senso il concetto «Africa» comprende il mondo del sottoproletariato «consumatore» rispetto al capitalismo produttore: il mondo del sottogoverno, della sotto-cultura, della civiltà pre-industriale sfruttata dalla civiltà industriale. [La Resistenza negra, introduzione a Letteratura negra. La poesia, a cura di M. De Andrade, Roma, Editori Riuniti, 1961 (ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, pp. 2344-55, qui a p. 2353-54)].

La scelta della Guinea, lo stato dell’Africa occidentale che nel 1958 aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia, potrebbe essere dettata da un articolo utilizzato da Pasolini per la stesura del soggetto di Il padre selvaggio, un film che egli avrebbe dovuto realizzare nel 1962. L’articolo di Yves Benoit Tre anni di insegnamento a Conarky, conservato tra le carte del Padre Selvaggio, è la «testimonianza di un insegnante francese in Guinea, che racconta i suoi sforzi per opporsi a una pedagogia “coloniale” e per rendere consapevoli i ragazzi della loro propria cultura, soprattutto attraverso i poeti neri contemporanei». 

La Guinea… polvere pugliese o poltiglia
padana, riconoscibile a una fantasia
così attaccata alla terra, alla famiglia,

com’è la tua, e com’è anche la mia.

Dall’astratta Guinea, subitaneamente, il testo trascorre più concreto Kenya, conosciuto direttamente dall’autore durante il suo primo viaggio in Africa, nel febbraio 1961. Seguendo il modello di L’odore dell’India, il libro di viaggio pubblicato da Pasolini nel 1962, la poesia a questo punto si sofferma sui particolari del paesaggio: «li ho visti, nel Kenia, quei colori / senza mezza tinta, senza ironia, // viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori […]». E poi, alla fine del racconto, al verso 113, di nuovo un cambio improvviso di tono e di tema: la voce narrante si rivolge a quell’Attilio che nel poemetto Récit era stato messaggero della notizia della denuncia contro Ragazzi di vita, stavolta coinvolto in un ragionamento complesso, che assume presto i toni dell’invettiva:

Ah, non potrò più resistere ai ricatti
dell’operazione che non ha uguale,
credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,

altro da ciò che sono: a trasformare
alle radici la mia persona:
è, caro Attilio, il patto industriale.

Nulla gli può resistere: non vedi come suona
debole la difesa degli amici laici
e comunisti contro la più vile cronaca?

L’intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da una dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo, ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

Al «patto industriale», che è all’origine del processo di omologazione culturale e della mutazione antropologica in corso dalla fine degli anni Cinquanta in Italia e nel cosiddetto mondo sviluppato, non può resistere l’individuo che vi si opponga con il suo corpo («Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – / alzare la mia sola, puerile voce – / non ha più senso […]»). Eppure, per quanto privo d’una speranza di salvezza e consapevole di quanto sia inutile «cercare / un mondo che fu nostro nella classica // forza dell’elegia» (vv. 153-155), il poeta che racconta si lascia pervadere da un’«ansia romantica» che si presenta come irrefrenabile e si estende su tutto il mondo pre-industriale, trascorrendo dalla Grecia, da Roma e dai «piccoli centri immortali» a Mogadiscio, a Nairobi e a tutte le «Guinee», fino a tornare, dopo un viaggio che rinvia a quello del Bateau ivre dell’ ‘africano’ Arthur Rimbaud, nelle ultime nove terzine, nell’Italia delle origini, agli albori della lingua italiana, sull’Appennino, a Casarola, accanto a Attilio Bertolucci:

E… alba pratalia, alba pratalia,
alba pratalia… I prati bianchi!
Così mi risveglio, il mattino, in Italia,

con questa idea dei millenni stanchi
bollata nel cervello: i bianchi prati
del Comune… della Diocesi… dei Banchi

toscani o cisalpini… quelli rievocati
nel latino del duro, dolce Salimbene…
Il mondo che sta in un testo, gli Stati

racchiusi in un muro di cinta – le vene
dei fiumi che sono poco più che rogge,
specchianti tra gaggìe supreme

– i ruderi, consumati da rustiche piogge
e liturgici soli, alla cui luce
l’Europa è così piccola, non poggia

che sulla ragione dell’uomo, e conduce
una vita fatta per sé, per l’abitudine,
per le sue classicità sparute.

Non si sfugge, lo so. La Negritudine
è in questi prati bianchi, tra i covoni
dei mezzadri, nella solitudine

delle piazzette, nel patrimonio
dei grandi stili – della nostra storia.
La Negritudine, dico, che sarà ragione.

Ma qui a Casarola splende un sole
che morendo ritira la sua luce,
certa allusione ad un finito amore.

Nel 1963 Pasolini lascia Monteverde, ma non per questo dismette il suo rapporto con i Bertolucci, come confermano tra l’altro le affettuose cartoline inviategli da Attilio, Ninetta e Giuseppe durante ogni estate. In una lettera del 1971 Bertolucci scrive: «Ti sono molto vicino, lo sono come quel giorno che Monteverde vecchia era così bella nel sole….» (lettera di Bertolucci a Pasolini del 28 giugno del 1971, Fondo Pasolini, IT ACGV PPP. I. 114 30). E poi, nel 1973: «ti leggo sempre: sei l’unico critico italiano» (cartolina postale di Bertolucci a Pasolini con timbro 15 luglio 1973, Fondo Pasolini, IT ACGV PPP. I. 114 31).

L’ultimo incontro con Attilio e Ninetta risale all’ottobre del 1975, nella torre di Chia, il rifugio di campagna di Pasolini. È l’ultima testimonianza di una relazione intima, familiare, interrotta solo dalla morte di uno dei due interlocutori: 

[…] mia moglie ed io abbiamo passato tutta una quieta giornata di sole a Chia, ospiti di Pier Paolo. A vedersi era cambiato poco, da quando lo avevo conosciuto; ma sembrava accettare quella maturità che anni prima gli faceva orrore, anche come parola. Andò in cantina, volle che bevessimo il «suo» Merlot, cominciava a gustare il vino, forse a sostituirlo giudiziosamente all’optalidon. Fra le tre e le quattro si assentò, scusandosi: poiché era il più eminente cittadino di Chia, doveva consegnare un premio a chi piantava alberi per nascondere le villette nuove, stridenti con il sublime paesaggio etrusco.

Perché qualche giorno dopo andò incontro alla morte? Era finta la sua accettazione della maturità, o l’aveva all’ultimo ripudiata? [ Bertolucci, Primo e ultimo incontro cit., p. 1135-36].

Al sopravvissuto Bertolucci spetta il compito di riprendere il filo del discorso in due poesie scritte dopo la morte di Pasolini: Due frammenti della vita di Pier Paolo Pasolini e Ancora a Pier Paolo Pasolini (la prima è uscita prima in Pier Paolo Pasolini, Amado mio preceduto da Atti impuri, con uno scritto di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1982, col titolo Due frammenti biografici e un envoy, poi in A. Bertolucci, Verso le fonti del Cinghio, 1993; la seconda in Id., La lucertola di Casarola, Milano, Garzanti, 1997).

Il primo testo, articolato in tre parti, prima mette in scena il periodo friulano di Pasolini (gli anni Quaranta), per poi disegnare a rapidi tratti il periodo romano da Ragazzi di vita a Accattone (gli anni Cinquanta), e chiudersi con un congedo alla maniera dei trovatori, un commiato dall’amico scomparso.

Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il Tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti.

Ancora a Pier Paolo Pasolini fornisce un riepilogo succinto di questo rapporto poetico a partire dalla prima poesia dedicata a Pasolini, Piccola ode a Roma, da cui vengono citati tre versi nella prima lassa. La seconda lassa si riferisce invece alla poesia A Pasolini (in risposta), anch’essa ampiamente citata, mentre la terza rinvia a Due frammenti della vita di Pier Paolo Pasolini. È a questo punto che la poesia acquista un senso, grazie all’inserimento di un elemento nuovo: dal Friuli, la terra attraversata dal Tagliamento, dove si trova la tomba di Pasolini, si trascorre, di là dal confine, nell’attuale Bosnia ed Erzegovina, alle città di Srebrenica e di Tuzla, due città simbolo della guerra serbo-croata, qui nominate probabilmente per i massacri di civili dell’estate del 1995, a cui è accostato l’omicidio di Guido Pasolini, partigiano della Brigata Osoppo ucciso durante il cosiddetto eccidio di Porzûs da altri partigiani appartenenti ai GAP. Chiudono la poesia due versi che rispondono ancora una volta all’incipit dell’epigramma A Bertolucci: «Sopravvivenza / anche la violenza».

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