Racconto sempre nei miei corsi di didattica della letteratura, al momento in cui devo illustrare gli ostacoli che l’insegnante può incontrare a scuola, il caso di una mia alunna che, anni fa, protestò vivacemente contro la mia strategia d’insegnamento. “Prof”, mi apostrofò con decisione: “La deve smettere di farmi fare tutti questi lavoro di gruppo, questi esercizi, io voglio sapere cosa studiare, leggo i libri, mi preparo e vengo alle interrogazioni!”. Sul piano formale aveva torto, poiché frequentava un istituto professionale ed era mio compito specifico di insegnante di Lingua e letteratura italiana formarla a lavorare in gruppo e a scegliere strumenti di comunicazione adeguati a diverse situazioni, quindi io non avrei potuto fare altrimenti. Ma io capivo le sue ragioni, la sua difficoltà a mettersi in gioco e a relazionarsi con me e con il gruppo dei pari in un contesto non sempre così sicuro, la sua resistenza al cambiamento, ovvero all’incontro con l’alterità delle opere letterarie e, anche, dei suoi interlocutori e delle sue interlocutrici.
Mi torna in mente quest’episodio ogni volta che sento parlare delle difficoltà che si incontrano nel praticare una valutazione educativa. “Gli studenti non la vogliono!”, ho sentito dire più volte da colleghe e colleghi della secondaria. E anche: “preferiscono i voti, le interrogazioni e i compiti”, a sottolineare il valore implicito della tradizione, ovvero del continuare a fare come si è sempre fatto. E anche questo è comprensibile, perché autovalutarsi, riflettere sugli apprendimenti, fare i conti con le evidenze, con le prove del cambiamento che sta avvenendo a livello personale, e confrontarsi con le valutazione delle e dei docenti è faticoso e impegnativo, e può incidere anche profondamente sul proprio destino. A volte sottrarsi è più facile. Studiare, farsi interrogare, prendere il voto, andare avanti. Cosa hai fatto? Quanto hai preso? Bene.
Il controllo sociale, la condivisione, l’esercizio del potere
In un capitolo del libro Comunità di pratiche letterarie ho messo a confronto il Decameron di Boccaccio e alcuni tratti del pensiero pedagogico di Dewey per spiegare quali sono le condizioni che consentono di realizzare una comunità di persone che, grazie all’esercizio del racconto, del canto e della danza, attraverso la condivisione di storie e di cibo, produce una società democratica. Lo riproduco, con leggere modifiche, qui di seguito, sperando di dare un contributo al dibattito sulla didattica laboratoriale e sulla valutazione educativa, la cui applicazione ritengo ormai irrinunciabile e che credo debba essere reclamata a gran voce soprattutto dalle e dagli studenti.
Per Dewey, a scuola – come nella vita quotidiana di una famiglia o sul lavoro –, il controllo sociale dovrebbe essere esercitato non da un’autorità personale ma da situazioni cui tutti prendono parte, in cui è possibile che siano presenti persone più esperte – il genitore, per esempio, o l’insegnante – le quali possono esercitare un’autorità non per manifestare la loro volontà individuale ma in quanto esecutrici degli interessi del gruppo:
in una scuola ben ordinata la principale fiducia di controllare questo o quell’individuo deve essere riposta nel controllo esercitato sulle attività che vi si esplicano e sulle situazioni di cui queste attività fanno parte. L’insegnante riduce al minimo le occasioni in cui deve esercitare un’autorità personale. In secondo luogo, quando è necessario parlare e agire fermamente, lo fa in nome e nell’interesse del gruppo, non per far mostra di un potere personale. Ecco ciò che differenzia l’azione arbitraria da quel che è giusto e leale.
Inoltre, non è necessario che la differenza sia formulata con parole, tanto dall’insegnante quanto dall’allievo, per essere avvertita nell’esperienza. Piccolo è il numero dei ragazzi che non avvertono la differenza (anche se essi non la sanno formulare e ridurre a un principio intellettuale) fra un’azione motivata dal potere personale e dal desiderio di imporla e l’azione che è giusta perché suggerita dall’interesse di tutti. (J. Dewey, Esperienza e educazione, trad. it di E. Codignola, Milano, Cortina, 2014, p. 41.)
La fonte del controllo sociale, dunque, è nella socialità dell’impresa che si sta compiendo: è sufficiente, perché funzioni, che ciascuno abbia la possibilità di prendervi parte sentendosi responsabile del lavoro da svolgere. «Quando gli alunni erano una classe piuttosto che un gruppo sociale, – si legge ancora in Esperienza e educazione di Dewey – l’insegnante era costretto ad agir in gran parte al di fuori e non già in veste di direttore di processi di scambio in cui tutti hanno la loro parte». Arrivati nella loro casa di campagna, i membri dell’onesta brigata del Decameron, che hanno liberamente scelto di andare a costituire una comunità alternativa a quella ormai smembrata (e fondamentalmente diseducativa) della città in preda al terrore, sanno di dover compiere un’impresa comune: inventare una vita associata dignitosa. Non serve un padrone o una padrona di casa, né tantomeno una forza di polizia pronta a intervenire in caso di conflitto. È l’azione stessa – mangiare e dormire, ballare e cantare, conversare e raccontare storie – a dare vita a comportamenti moralmente ineccepibili, che consentono – lo vedremo nel prossimo capitolo – di allargare a dismisura le possibilità di fare esperienze significative. «Se l’educazione è basata sull’esperienza e l’esperienza educativa viene concepita come un processo sociale, la situazione cambia radicalmente», conclude il suo ragionamento Dewey: «L’insegnante perde la sua posizione esterna di padrone o di dittatore per assumere quella di direttore di attività associate».
Come le narratrici e i narratori del Decameron
È il ruolo ricoperto, a turno, dalle regine e dai re della brigata boccacciana: direttrice e direttore di attività associate. Attività che, richiedendone in gran misura, producono socialità e reciprocità. Qui e ora, durante la condivisione di storie, si impara l’ascolto ascoltando, si impara la narrazione narrando, si impara l’arte di conversare conversando. Non perché sia utile per il futuro, ma perché indispensabile per fare un’esperienza significativa nel presente, nel qui e ora del lavoro di gruppo, che non potrebbe esistere senza la collaborazione attiva di ciascuno e ciascuna. Fare esperienze significative nel presente, secondo lo stesso Dewey, è la condizione per desiderare di farne anche in futuro.
Durante la prima giornata, lo abbiamo visto, Pampinea invita i suoi ‘sudditi’ ad andare liberamente per i prati, conversando e passeggiando, per poi mangiare insieme e riposare. Se ha potuto farlo, se tutti hanno potuto godere di questa libertà, è stato grazie alle risorse economiche disponibili e alla capacità di utilizzarle, organizzando il lavoro dei servitori in modo da garantire un buon governo della casa:
Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo giá fatti i famigliari de’ tre giovani e le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: — Acciò che io prima esemplo dèa a tutti voi per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliare di Dioneo, mio siniscalco, ed a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere, e di Parmeno sèguiti i comandamenti. Tindaro, al servigio di Filostrato e degli altri due, attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno alli loro ufici impediti, attender non vi potessero. Misia, mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno, ed alla nettezza de’ luoghi dove staremo. E ciascun generalmente, per quanto egli avrá cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o veggia, che niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori.
Per poter realizzare l’utopia di una società ideale, fondata sulla condivisione di storie liberamente scelte e altrettanto liberamente ascoltate e discusse, è pur necessario disporre delle risorse necessarie ad agire. Affinché dieci persone diventino un’onesta brigata, o una classe di studenti diventi un gruppo sociale, bisogna che gli individui abbiano la possibilità di agire liberi da vincoli e costrizioni.
Liberi da vincoli e da costrizioni
Dante, nelle straordinarie pagine proemiali del Convivio, per motivare il suo ruolo di mediatore e di divulgatore di conoscenza, parte dal presupposto che «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere», ma che molti, per ragioni personali, ma anche sociali ed economiche, sono impossibilitati ad applicarsi allo studio e alla scienza, che costituisce l’«ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade. […] Da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimovono dall’abito di scienza». Si tratta perciò motivi interni all’uomo ed esterni a lui che ne limitano la libertà di apprendere. Questi ultimi (esterni) soprattutto sono da compiangere:
Di fuori dall’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una delle quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano (Convivio I, 1, 1-4).
Dewey distingue questa libertà esterna – «un mezzo in vista della libertà di giudizio e del potere di eseguire fini liberamente scelti» – dalla libertà interna: «libertà di pensare, di desiderare, di fare progetti». In assenza di libertà esterna gli individui non riuscirebbero a manifestare i propri impulsi e desideri, né tantomeno a rivelarsi, attraverso le loro libere scelte, a sé stessi e agli altri. L’insegnante, spiega Dewey, non potrebbe conoscere le persone da educare, poiché in assenza di libertà esterna si comporterebbero in modo convenzionale o ipocrita.
Per per fare emergere i talenti di ciascuno dei membri dell’onesta brigata e poterli condividere, è necessario agire in un ambiente protetto e sicuro. È così che una volta tornati a casa, dopo la passeggiata mattutina, i ragazzi e le ragazze trovano la tavola apparecchiata con la colazione, come previsto dalla regina Pampinea:
E poi che in quello tanto fûr dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, ed ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fûr presti: e senza piú, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle ed ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono; e levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani, e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero: e per comandamento di lei, Dioneo preso un leuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina con l’altre donne, insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono, e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. Ed in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire; per che, data a tutti la licenza, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e cosí di fiori piene come la sala trovarono: e simigliantemente le donne le loro, per che, spogliatesi, s’andarono a riposare.
La libertà esterna produce conoscenza. È grazie alla libertà procurata dal siniscalco Parmeno, nominato per l’occasione maestro di casa, che i componenti della brigata scoprono di essere tutti in grado di ballare, di suonare e di cantare. È attraverso la valorizzazione del potenziale educativo della libertà – esterna e interna – che una scuola democratica può riuscire nell’impresa di far compiere esperienze significative ad alunni e alunne: una scuola che ripone fiducia nella socievolezza degli individui e nel loro desiderio di vivere una vita degna di essere vissuta.