Riproduco di seguito l’intervento uscito negli atti del convegno La lettura ad alta voce condivisa che si è tenuto a Perugia nei giorni 4-6 dicembre 2024.
C’è stato un tempo in cui si credeva che insegnare alle classi di studenti medi ad analizzare i testi e a descriverne sistematicamente le caratteristiche fosse una pratica liberatoria, capace di affrancare i nuovi cittadini dal condizionamento massmediatico. Era l’epoca in cui i testi venivano classificati come letterari e non letterari, e si parlava assiduamente di una didattica del testo letterario da praticare attraverso un incessante e dialettico andirivieni tra commento-parafrasi e interpretazione (Giusti, in press).
Mentre conquistava spazio, nella teoria della lettura, la soggettività del lettore e della lettrice, cresceva la paura di perdere il controllo sull’attività critica e sulla legittimità degli studi letterari, mentre nella scuola secondaria italiana si continuava a praticare un insegnamento letterario ancorato a un modello spersonalizzato e atomizzato di lettore (Fusillo, 2009, p. 96), guardandosi bene dal prendere le distanze da quelle pratiche didattiche che riconoscono implicitamente al testo un valore e un significato oggettivo prima ancora che intersoggettivo o soggettivo. Intanto, nell’ambito della ricerca teorica si è preso atto che, per quanto «si possano dosare in maniera diversa soggettivismo e oggettivismo, intenzionalità e alienazione, resta ormai come dato di fatto che la letteratura è sempre oggetto di una transazione tra l’autore e i suoi pubblici: una partita a più mani in cui il momento estetico finale risiede come sempre nell’occhio di chi guarda» (ibidem). Armati di questa consapevolezza, non avendo il coraggio o l’ambizione di coinvolgere attivamente i lettori e le lettrici nel processo creativo dell’invenzione della letteratura, abbiamo avuto l’accortezza di smettere di sostenere con forza il valore liberatorio e decondizionante dell’attività di analisi e interpretazione del testo svolta da persone che non praticano né praticheranno mai la lettura e la scrittura letteraria.
Di quel periodo, e da uno sterminato dibattito sul senso e sui modi dell’insegnamento letterario, proviamo oggi a ritenere due lezioni fondamentali, due punti fermi a cui agganciare qualche ipotesi per ridare forza a un’utopia emancipatoria che è avvertita da chi scrive come urgente e necessaria.
Il primo punto è riassunto in modo ineccepibile da Bruno Falcetto (2024, p. 15), che così apre un suo recente intervento sulla didattica della letteratura:
Comincio da una personale convinzione profonda: il vantaggio che dà il ragionare di letteratura sul terreno didattico a partire da una prospettiva funzionalistico-relazionale, pragmatica. I testi letterari, gli atti linguistici “servono per vivere” […]. Guardare alla “letteratura” come a un insieme di manufatti verbali raffinati ed efficaci allestiti secondo una vasta tipologia di fogge, di vario grado di complessità, che rispondono in differenti maniere a nostri bisogni primari, di tipo mentale, immaginativo, aiuta a riconoscere sul serio il ruolo della letteratura come attività sociale non accessoria.
È una formulazione efficace, che tiene insieme la teorizzazione di Franco Brioschi (2006, p. 160) sulla letterarietà come risultato di un comportamento sociale e quella di Vittorio Spinazzola (2018) sull’io leggente, a cui si aggiunge la consapevolezza del ruolo decisivo giocato dalla letteratura nello sviluppo individuale e quindi, sulla scorta delle riflessioni di Mario Barenghi (2020), sull’evoluzione della specie. Queste brevi considerazioni potrebbero essere approfondite su centinaia di volumi e articoli scientifici che servirebbero solo a testimoniare le dimensioni di un fenomeno non più trascurabile in ambito didattico. In questa sede, ci basti sapere che si tratta di idee non più pionieristiche e tutt’altro che marginali, capaci di aprire prospettive inedite alla didattica della letteratura come campo di ricerca e all’insegnamento letterario.
Anche il secondo punto è contenuto in nuce nel ragionamento di Falcetto, che vede nella letteratura – secondo una prospettiva che si colloca decisamente al di là della svolta bioculturale (Cometa, 2018) – un insieme di «manufatti verbali». Il fatto è che le opere letterarie, per quanto abbiano un carattere relativo e funzionale assolutamente dipendente dall’atto di lettura (che è sempre storicamente situato), condividono con le altre opere d’arte una dimensione materiale ineludibile, per quanto fluida e multiforme. Visibile o udibile che sia, il dispositivo testuale, per funzionare come una «“macchina” proposizionale che genera un mondo alternativo a quello attuale» (Bertoni, 2018, p. 162), ha bisogno di essere percepito ed esperito dal soggetto (e non da uno qualsiasi, ma di volta in volta da un preciso io leggente che sia in grado di “accendere” il dispositivo, di farlo funzionare nel proprio corpo).
Il punto è che questi manufatti linguistici per essere percepiti come letterari devono pur possedere alcune «proprietà specifiche» (ivi, p. 282) che in quel determinato momento storico, in quell’ambiente, in quello specifico momento sollecitano e stimolano determinati comportamenti letterari (il desiderio di leggere allo scopo di provare se il dispositivo funziona e se la macchina proposizionale si mette in moto). Sono queste proprietà, qualunque esse siano (ed è inevitabile che siano proprietà intrinseche al testo, che non va considerato come un elemento dato ma come il risultato di processo storico) a rendere l’opera d’arte letteraria un oggetto duro, irriducibile e, anche, riusabile. Proprio perché concordiamo sull’idea che la letteratura sia «una categoria aperta che designa classi di oggetti eterogenei e mutevoli a seconda delle epoche, dei luoghi, delle istituzioni, dei sistemi di valori, dei criteri di classificazione del sapere» (ivi, p. 64), siamo anche convinti che i testi siano irriducibili e che ogni singolo atto di lettura, per quanto decisivo possa essere, non potrà mai risolvere il problema della comprensione, né tanto meno dell’interpretazione o del giudizio dell’opera. L’opera, banalmente, è tale in quanto oppone resistenza alla lettura, e ha ragione ancora Federico Bertoni (2013, p. 17) quando scrive che «il grande pregio di quei sistemi linguistici complessi che chiamiamo testi letterari è che non si lasciano ridurre a risposte univoche o a tesi unilaterali».
Che lo diciamo attraverso l’elaborazione teorica più aggiornata ai risultati della ricerca empirica (per una sintesi cfr. Di Nicola, 2024, pp. 115-116), o dalla prospettiva di chi ha scelto di sperimentare per proprio conto una vita permeata e modellata dalla lettura letteraria, rimane il fatto che i libri sono più forti di noi (Giusti, 2013) e che, quando scegliamo di portare un libro in classe per leggerlo ad alta voce o per aggiungerlo allo scaffale della biblioteca, noi stiamo introducendo nell’ambiente un nuovo elemento, un oggetto-dispositivo in grado di produrre cambiamenti che dipendono dalla relazione che si instaura tra le proprietà dell’oggetto e le proprietà dei soggetti, e che tuttavia possono ripetersi anche in altri ambienti e in altri tempi, senza che quel dispositivo ne risulti alterato o diminuito.
Come ha dichiarato Marielle Macé affrontando il concetto di risorsa letteraria (ivi, pp. 92-93):
Intendo quindi una risorsa nel senso in cui ho a che fare con qualcosa di più forte di me, di cui mi approprio. E voglio davvero insistere su questo senso di “più forte di me”. Gli scrittori che cito li scelgo perché sono appunto più forti di me, perché spostano il mio pensiero, perché dicono cose che avrei voluto poter dire io, ma loro lo dicono meglio e ne dicono di più. La letteratura è una risorsa anche in questo senso: mentre leggo, il testo è il mio alleato, ma è il mio alleato in tutta la sua difficoltà, in tutta la sua alterità e questo fa sì che io debba fare uno sforzo nei suoi confronti. Una risorsa quindi, ma una risorsa da tradurre, da raggiungere, alla quale fare posto al proprio interno.
Per quanto possa sembrare paradossale, il testo diventa letterario quando è usato in modo letterario – ovvero esteticamente, o comunque secondo regole e consuetudini riconoscibili come letterarie da un determinato gruppo sociale – e tuttavia non viene annullato o assorbito nell’atto della lettura, né tantomeno viene distrutto dall’esperienza estetica. La transazione avviene non in modo totalmente immediato ma attraverso un’opera di traduzione che si basa sul riconoscimento dell’alterità. Io che insegno, e che porto il testo in classe, non sono il testo, e questo è vero anche per chi leggerà quel testo, che non si dissolverà in esso.
Se c’è una specificità dell’insegnamento letterario, che lo accomuna all’insegnamento artistico, musicale e coreutico, essa consiste proprio in questa possibilità di ricorrere a un «terzo elemento» (Rancière, 2008, p. 20) che, sono ancora parole di Jacques Rancière, è «estraneo a entrambi», insegnante e studente, ma «al quale essi possono riferirsi per verificare insieme ciò che l’allievo ha visto, che cosa ne dice e che cosa ne pensa» (ibidem). Non è possibile sapere in anticipo cosa succederà, se ci saranno cambiamenti e, nel caso vi fossero, che direzione prenderanno, e tuttavia sappiamo che portare in classe le opere può essere pericoloso, e anche per questo tendiamo a ricorrere a tecniche didattiche che ne disinnescano il potenziale esplosivo: parafrasi, analisi del testo e commenti, funzionali a riconoscere l’implicita superiorità dell’insegnante e del suo sapere specialistico, senza il cui supporto non sarebbe possibile sapere se l’interpretazione è andata a buon fine, ovvero se sono state recepite le spiegazioni e sono state applicate le procedure insegnate. Per questo, affinché sia possibile perseguire l’emancipazione dell’allievo, non basta riconoscere l’alterità e l’irriducibilità dell’opera (il terzo elemento); occorre anche che il maestro sia ignorante, ovvero che non si ponga tra l’allievo e l’opera come esperto, ma rinunci a insegnare a suoi alunni il suo sapere, scegliendo di ingiungere loro «di avventurarsi nella foresta delle cose e dei segni per dire ciò che hanno visto e cosa ne pensano, per verificarlo e farlo verificare» (ivi, p. 16). Paradossalmente, ha scritto Carola Borys (in press), «anche l’emancipazione intellettuale in Rancière non dipende dalla trasmissione del sapere ma da un atto di lettura libero dalla mediazione dell’autorità». L’oggetto libro, nella sua materialità e nella sua terzietà, assume un ruolo fondamentale nel rapporto tra allievo e maestro (tra allievo e maestra, tra allieva e maestra, ecc.), poiché è in grado di tenere le due menti – di chi insegna e di chi apprende – «ad una distanza tra eguali, laddove la spiegazione è annichilimento di uno spirito attraverso un altro» (Rancière, 1987, p. 60).
È ovvio che non tutte le letture hanno la capacità di emancipare il soggetto, ma è altrettanto ovvio che affinché una lettura – meglio se eterodossa – abbia la possibilità di liberare o decondizionare chi legge a scuola e attraverso la mediazione della scuola, è fondamentale che l’insegnante sia ignorante e che quindi eviti ab origine di insegnare all’allievo «la sua stessa incapacità» (Rancière, 2008, p. 15). Quella del maestro ignorante è una «pratica emancipatrice» il cui presupposto è l’ignoranza della distanza che separa chi non sa da chi sa, l’inesperto dall’esperto. La consapevolezza di quella distanza è qualcosa che instupidisce e abbrutisce, perché rende il soggetto dipendente dalle spiegazioni dell’esperto. Tuttavia, si legge ancora in Lo spettatore emancipato:
La distanza non è un male da sopprimere, ma la condizione normale di ogni comunicazione. Gli animali umani sono animali distanti che comunicano attraverso la foresta dei segni. La distanza da cui l’ignorante deve affrancarsi non è l’abisso tra la propria ignoranza e il sapere del maestro. È semplicemente il percorso da ciò che egli già conosce a ciò ch e ancora ignora, ma che può imparare esattamente come ha imparato il resto, non per prendere la posizione del dotto ma per esercitare meglio l’arte della traduzione, del mettere le sue esperienze in parole e le sue parole alla prova; l’arte del tradurre le proprie avventure intellettuali per gli altri e di ritradurre le traduzioni che a loro volta gli altri gli presentano delle loro avventure. Il maestro ignorante che può aiutarlo a percorre questo cammino si chiama così non perché non sappia niente, ma perché ha rinunciato al «sapere dell’ignoranza» e quindi ha dissociato il proprio essere maestro dal proprio sapere. Egli non insegna ai suoi alunni il suo sapere, ingiunge loro di avventurarsi nella foresta delle cose e dei segni per dire ciò che hanno visto e cosa ne pensano, per verificarlo e farlo verificare. Ciò che egli ignora è la disuguaglianza delle intelligenze. (Ivi, p. 16).
Presentarsi in classe con un libro, con una valigia di libri, avendo rinunciato a quel sapere dell’ignoranza che spinge a colmare l’ignoranza altrui con le proprie spiegazioni, potrebbe aprire più di un orizzonte a chi crede nel ruolo trasformativo della lettura letteraria e, senza l’ingenuità di chi pensa che sia sufficiente “fare letteratura” o commentare i testi per “educare alla cittadinanza”, si prende la responsabilità di scegliere per i suoi allievi i libri da mettere alla prova, accettando il rischio di sbagliare e facendosi carico della fatica di provarci ancora e ancora e ancora.
Riferimenti bibliografici
Barenghi, M. (2020). Poetici primati. Saggio su letteratura e evoluzione. Macerata: Quodlibet.
Bertoni, F. (2013). Sull’utilità e il danno della letteratura per la vita. Between, 3(5) http://www.Between‑journal.it/
Bertoni, F. (2018). Letteratura: Teorie, metodi, strumenti. Bologna: Il Mulino.
Borys, C. (in press). La lettura tra appropriazione e emancipazione: gli operai-lettori di Jacques Rancière. In Poteri della lettura:Pratiche, immagini, supporti. Atti del Convegno annuale dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura.
Brioschi, F. (2006). La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura. Milano: Net.
Cometa, M. (2018). Letteratura e darwinismo: Introduzione alla biopoetica. Roma: Carocci.
Di Paolo, P. (2024). La ricezione letteraria degli studenti delle scuole secondarie. In S. Giusti, A. Molè, Orientare con la letteratura. Milano, Franco Angeli (pp. 115-129).
Falcetto, B. (2024). Conoscere le cornici. Per una didattica reattiva della letteratura. In S. Giusti, N. Tonelli (eds.), Le risorse della letteratura per la scuola democratica, Torino: Loescher (pp. 15-26).
Fusillo, M. (2009). Estetica della letteratura. Bologna: Il Mulino.
Giusti, S. (2013). “Più forte di me”. La letteratura come risorsa per la vita: una conversazione con Marielle Macé.In F. Batini, S. Giusti (eds.), Imparare dalla lettura, Torino: Loescher (pp. 85-105).
Giusti, S. (in press). Dall’analisi del testo all’autobiografia del lettore: verso una didattica della lettura letteraria. InOpera.
Rancière, J. (1987). Le Maître ignorant. Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle. Paris: Fayard (trad. it. Il maestro ignorante, Milano, Mimesis, 2008).
Rancière, J. (2008). Le spectateur émancipé. La Fabrique (trad. it. Lo spettatore emancipato, Roma, DeriveApprodi, 2018).
Spinazzola, V. (2018). Critica della lettura. Leggere, interpretare, commentare e valutare un libro. Firenze: goWare.