Il declino, la fine, il progresso, la reazione

Scrive Vanessa Roghi nel saggio La lettera sovversiva che «L’opera di demolizione di don Milani e della Lettera a una professoressa inizia negli anni Sessanta e non è mai terminata», inizialmente a opera di riviste e quotidiani di destra, poi, a partire dagli anni Ottanta, anche «da intellettuali che si percepiscono come di sinistra o quanto meno progressisti». Soprattutto sulla stampa quotidiana don Lorenzo Milani e la Scuola di Barbiana diventano – e per alcuni sono ancora – il donmilanismo, un’ideologia caricaturale, che nelle intenzioni dei detrattori è sinonimo di lassismo, di odio di classe, di risentimento (sull’argomento si veda ancora Vanessa Roghi).

Grazie a un prezioso lavoro di Paolo Giovannetti (L’istruzione spiegata ai professori, Pisa, Ets, 2006) è possibile ricostruire per grandi linee il «discorso antiriformista» (ivi, p. 55) degli anni a cavallo del Duemila, in corrispondenza delle riforme che hanno condotto all’autonomia scolastica e universitaria.

A partire da quel periodo, spiega Giovannetti:

… è la stessa distinzione destra/sinistra non solo ad andare in crisi, ma anche a essere sottoposta a forme di rielaborazione confusiva, entro le quali posizioni francamente reazionarie vengono praticamente spacciate per progressiste, e comportamenti intesi a rendere più abitabile la scuola sono oggetto di critica da parte di chi si dice difensore della scuola pubblica (ivi, p. 54).

Sono cinque i punti o i temi fondamentali che, sempre secondo Giovannetti, ricorrono in quei testi che si propongono di attaccare – «di solito in chiave ‘progressista’» (ivi, p. 55) – la progettazione della nuova scuola e università. Il primo è la «sindrome dell’ignoranza», che si manifesta attraverso la preliminare ammissione dello scrivente di non capire bene quel che sta succedendo. Le riforme, che non sono comprese a fondo nelle loro motivazioni e nelle loro conseguenze, sono attaccate anche perché causano confusione. Il secondo tema ricorrente nel discorso antiriformista è l’antiburocraticismo, che sposta tutta l’attenzione dai contenuti delle riforme al loro modo di realizzarsi, che viene definito, appunto, «burocrazia». All’accusa di aziendalizzazione, riassunta dall’autore nel motto «la scuola sta diventando un’azienda» – rivelatrice di una sostanziale estraneità dei detrattori delle riforme alla gestione razionale della scuola come organizzazione –, segue quella di educare gli studenti al consumo, in osservanza di tendenze didattiche di origine americana e tradendo la missione originaria della scuola italiana di tramandare la «vera cultura». A quest’ultimo argomento si aggancia l’ultimo dei motivi individuati da Giovannetti, quello del degrado culturale: il dilagare dell’ignoranza che sarebbe causato proprio dalle riforme scolastiche e universitarie.

Il più recente dibattito sulle riforme di stampo europeista che, tra il 2007 e il 2012, hanno ulteriormente modificato l’impianto normativo della scuola italiana, non modifica sostanzialmente quest’elenco, come rivela un significativo articolo uscito a firma dello storico Piero Bevilacqua sul quotidiano «Il manifesto» alla fine del 2019, in cui ricorrono soprattutto i temi della burocratizzazione – «Controllo autoritario e nuove burocrazie soffocano oggi la scuola», – dell’aziendalizzazione – «Non bisogna dimenticarlo: la scuola-azienda reclama controllo dei risultati finali, come accade in qualunque impresa nata per fare profitto», – e del degrado culturale, espresso con frasi che lasciano trasparire un sentimento nostalgico per il passato:

la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Al suo interno la cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere è subordinata a una logica di apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.

Pur in assenza di un’analisi estesa e approfondita di tutte le fonti, ricorrono nel discorso pubblico sulla scuola alcune costanti e, soprattutto, uno schema di storia che sembra dominare l’immaginario contemporaneo. Intanto, è una storia che finisce male, anzi che in qualche modo è già finita, poiché il presente è il punto di arrivo, il risultato di una serie di errori compiuti nel recente passato. La storia di un «declino» che ha già compiuto il suo corso e che deve essere ratificato per poter in qualche modo ricominciare daccapo. Tutto l’impianto del libro L’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia (Marsilio 2019), per esempio, si fonda su quest’idea: «Il declino del paese è andato di pari passo con quello dell’istruzione. La scuola è diventata sempre di più un organismo burocratizzato, sottoposto a una frenesia inconsulta di riforme, di continui aggiustamenti di quelle già fatte, di proposte strampalate sempre nuove, […]» (ivi, p. 17; per una lettura di questo aspetto del libro si rinvia a una recensione di Christian Raimo).

Questo percorso in discesa è popolato da personaggi già noti ai lettori di narrativa scolastica: gli insegnanti, afflitti da mille disgrazie e tuttavia ancora vivi e vivaci, verso i quali il narratore-opinionista tende a manifestare una sorta di solidarietà compassionevole, assurti al ruolo di vittime; i dirigenti scolastici, anelli di congiunzione tra la scuola-azienda e lo Stato-burocrate, chiamati a recitare la parte dei nemici; gli studenti, rappresentati come soggetti passivi, vittime a loro volta del cambiamento, di cui portano il marchio indelebile dell’ignoranza.

Dunque, in sintesi, il narratore – l’adulto intellettuale, scrittore, giornalista, – racconta la storia di un mondo in declino, in cui lo Stato (sobillato o costretto dall’Europa), con l’aiuto dei dirigenti, inizialmente opprime e combatte i docenti e gli studenti, che vengono sconfitti. Il solo possibile riscatto sembra essere nelle mani dei docenti, i quali, grazie all’aiuto degli intellettuali, possono, combattendo lo Stato, rimuovere i suoi malefici e salvare almeno una parte degli studenti. 

A questa storia sembra di poter ricondurre buona parte delle opinioni e delle rappresentazioni della scuola che circolano sul web e in quei quotidiani e riviste che sembrano rincorrere contenuti, forme e stile dei social. Una narrazione che risponde probabilmente a un bisogno diffuso di dare senso al disagio di tanti adulti, i quali riconoscono in quei personaggi e in quelle trasformazioni un racconto verosimile e coerente con il proprio sistema di valori, con la propria percezione di sé nel mondo, ma che non giova, – o almeno così pare a chi scrive – alla crescita e allo sviluppo dello Stato democratico, né tantomeno al lavoro quotidiano di studenti e docenti che a scuola devono trascorrere migliaia di ore ogni anno.

(In questo articolo rielaboro e sintetizzo quanto espresso in mio breve saggio intitolato Storie di scuola, scuola di storie, in Vero, falso, web. Attendibilità, autorevolezza e democraticità in rete, a scuola, a c. di A. Nesti e S. Giusti, Cosenza, Pellegrini Editore, pp. 89-100)

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