Mi è capitato di sostenere pubblicamente – e perfino di scriverlo – che la didattica della letteratura inizia con la lettura ad alta voce di storie praticata durante l’infanzia. Ho scritto manuali sull’argomento, ho partecipato a corsi di formazione interamente dedicati alla pratica della lettura ad alta voce nei servizi educativi e nelle scuole. Mai una protesta, mai un’obiezione di rilievo contro questo metodo: solo alcune osservazioni puntuali, giusto per notare che ci sono delle difficoltà apparentemente trascurabili che potrebbero impedirne l’uso intensivo. Per esempio: “non c’è tempo, devo finire il programma”, “non abbiamo libri a scuola”, “non stanno mai fermi”, oppure, ancora più diffuso, “e se si muovono cosa devo fare?”. Per fornire argomenti più solidi a chi ritiene che la lettura ad alta voce NON VADA PRATICATA A SCUOLA se non sporadicamente, come riempitivo o come momento di distrazione dai più seri impegni scolastici, ho scritto alcune note che riporto di seguito, sperando di essere utile a individuare giustificazioni valide.
- A quell’età non possono capire
I bambini e le bambine, come poi più avanti i ragazzi e le ragazze, non sono abbastanza colti da poter capire direttamente quanto leggono. C’è bisogno della mediazione di un adulto di riferimento, che deve assumersi il compito di guidare le interpretazioni e di difendere così le deboli menti di coloro che – essendo culturalmente indifesi – possono lasciarsi fuorviare dalla lettura di storie romanzesche. L’accesso ai romanzi, ai racconti e, in generale, alle opere della letteratura, dovrebbe essere riservato a coloro che sono in grado di difendersi dal potere manipolatorio e trasformatore delle storie ben raccontate, le quali, passando attraverso la porta del piacere, eludono il controllo della ragione.
Come scrive già nel 1582 Carlo Borromeo, i «digiuni di latino» hanno bisogno di protezione, poiché una volta esposti all’influsso dei libri potrebbero «facilmente implicarsi in vari errori» (citato in Siti, 2001, p. 129): meglio evitare che ignoranti di ogni età e classe sociale entrino il contatto con dei dispositivi in grado di eludere il controllo sociale attraverso l’ascolto di libri che – grazie alla pratica della lettura ad alta voce condivisa – possono essere compresi anche quando non si è pronti a gestirne le conseguenze etiche e cognitive. Se la condivisione di storie deve somigliare a un gioco o all’ascolto di una canzone, allora tanto vale non creare confusione e scegliere pratiche didattiche più consone.
2. Devono imparare a studiare
Quante volte abbiamo sentito dire, specialmente nei contesti universitari, che la scuola non prepara in modo adeguato i giovani, i quali non saprebbero leggere e scrivere in modo sufficientemente corretto e, soprattutto, non sarebbero abbastanza abituati allo studio, ovvero alla lettura approfondita finalizzata all’acquisizione e all’elaborazione critica di informazioni e concetti selezionati da chi insegna.
Nonostante, come scriveva il poeta e docente universitario Edoardo Sanguineti (1997), «la grande, tenace e vittoriosa raccomandazione della scuola italiana» sia da sempre «siamo qui per studiare mica per leggere» – «due cose radicalmente eterogenee e incompatibili, pare, e l’una nuoce sommamente all’altra» –, sembra che il numero di ore dedicate allo studio individuale non sia ancora sufficiente, e che debba essere incrementato o almeno reso più efficace. Non è dunque il caso di dedicare ulteriore tempo a un’attività che espone ogni studente a dei testi andando a migliorare le capacità cognitive di base e i livelli di comprensione in modo implicito, favorendo in questo modo l’apprendimento non dichiarativo. La lettura ad alta voce, esattamente come l’apprendistato, lo stage e tutte le varie forme di apprendimento da esperienza, può sottrarre del tempo prezioso al pur necessario allenamento allo studio, sottraendo gli studenti al controllo che è invece possibile effettuare grazie al sempre valido sistema della lezione, accompagnata dall’assegnazione delle pagine da studiare e dalle successive verifiche scritte o interrogazioni.
3. Prenditi cura della loro mente
La natura della voce – ha scritto Corrado Bologna (2022, p. 35) – «è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono; è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza». La lettura in comune di storie pronunciate ad alta voce ed ascoltate – con le parole che vengono bevute dalle orecchie, passando attraverso l’aria da un corpo a un altro – tende a confondere e mescolare funzioni che attribuiamo all’intelletto, come il comprendere e il pensare, con funzioni tipicamente corporali, come il respiro e la digestione.
Siamo sicuri che non sia preferibile tenere separate queste funzioni, concentrandoci, almeno a scuola, sullo mente e sull’intelletto, come abbiamo imparato da tutta la tradizione della filosofia metafisica? Come si legge nel fondamentale studio sulla Filosofia dell’espressione vocale di Adriana Cavarero (2003), il processo di devocalizzazione del logos trova una delle sue massime espressioni nel pensiero platonico:
Mentre prima il pensiero era un co-prodotto delle funzioni vitali della respirazione e dell’alimentazione, esso viene ora per primo e non è prodotto dal corpo. Per dirla con Platone, sta nel cervello – nel midollo dell’encefalo – ma non è un effetto del cervello, perché la materia grigia non è affatto la sua causa. Spostandosi dai polmoni alla testa, il pensare, ossia l’attività dell’anima noetica, si autonomizza da ogni causa corporea e guadagna il suo statuto metafisico.
In tutta coerenza con la liquidazione della phonè, ridotta a un ruolo ancillare, sostanzialmente superfluo e in ogni caso inadeguato rispetto al regime della verità, questo statuto metafisico del pensiero è appunto quello che caratterizza il pensiero stesso come attività insonora (ivi, p. 77).
La lettura ad alta voce, in quanto pratica vocale, è corporea e corporale, e richiede infatti, per essere realizzata, una certa confidenza con la propria e altrui fisicità, con la propria respirazione e con il fiato – più o meno odoroso – di chi sta ascoltando, e proprio mentre sta facendo i conti con il dispositivo testuale e con il senso della storia narrata è esposto al contatto con quel suono specifico, poi con gli sguardi, la prossemica, la mimica, e i colpi di tosse, i sospiri e tutti quegli elementi di disturbo che distraggono dall’autentico scopo dell’istruzione: il rendimento scolastico misurato con il voto (per un approccio critico al problema si rinvia a Corsini, 2023).
Ricordiamoci inoltre che fin dall’antichità la potenza sonora della parola è affidata alla voce femminile – della Musa o delle Sirene, – in quanto fonte primaria di ogni godimento, poiché, si legge ancora in Cavarero (2003, p. 118), «Come succede per ogni essere umano che un giorno è venuto al mondo, la prima voce è una voce di donna». E non deve forse l’essere umano, grazie al processo di civilizzazione e, anche, affinché quel processo possa avvenire, rinunciare a quel godimento primigenio e primordiale, e trascorrere dai piaceri del canto – tradizionalmente femminile e asemantico – ad attività più razionali come la narrazione e il ragionamento? La scrittura e lettura individuale, soprattutto se praticate con le mani e gli occhi sulla pagina, possono garantire un maggiore distacco tra mente e corpo, e facilitare quella cura della mente che sempre più sembra necessaria ad assicurare il controllo della ragione sulla vita.
4. I classici non possono essere sostituiti da libri per ragazzi o riscritture
La lettura ad alta voce condivisa, si legge nella manualistica più aggiornata, deve favorire l’esposizione a storie che possano attingere al sostrato esperienziale di chi ascolta, sollecitando la memoria a lungo termine del soggetto e mettendo in moto il suo processo immaginativo (Giusti, 2020). I libri scelti per la lettura dovrebbero essere connessi all’esperienza della comunità delle ascoltatrici e degli ascoltatori, e dovrebbero inoltre rispondere al criterio della bibliovarietà o bibliodiversità (Batini e Giusti, a cura di, 2022, pp. 99-103 e 55-62).
Uno dei consigli contenuti nel manuale intitolato Strategie e tecniche per leggere ad alta voce a scuola, frutto di una ricerca condotta sul campo e indagando la letteratura internazionale, recita così:
La selezione dei testi dev’essere adeguata al livello di comprensione degli alunni, naturalmente, ma dev’essere sempre anche un passo avanti, in modo da rappresentare una sfida. Vai alla ricerca di voci, esperienze, generi e forme sempre le più varie possibile (ivi, p. 25).
Ma quali potrebbero essere le conseguenze di un simile atteggiamento sul canone delle letture scolastiche, e quanto spazio rimarrebbe, dunque, per lo studio dei classici della letteratura e del pensiero che ogni adulto colto ha immagazzinato nella memoria? E in una scuola povera di mezzi, possiamo davvero permetterci di acquistare romanzi per ragazzi o per giovani adulti, albi illustrati e graphic novel, come richiesto da questo tipo di approccio didattico? E che fine farà il libro di testo?
Come ha scritto Antonio Faeti (2001, p. 112), l’esito attuale del complesso rapporto con la lettura, che vede l’Italia ultima o quasi tra i paesi industrializzati dell’Occidente, «è stato conseguito soprattutto dalla scuola, secondo una secolare strategia che trova il proprio fondamento più efficace nel piacere del testo, in una opposizione profonda, radicata, ma strategicamente mutevole, contro chi offriva quanto la scuola non intendeva far entrare nelle proprie aule». Siamo sicuri di voler cambiare strada? E se perdessimo davvero il controllo, non saremmo poi costretti ad ammettere che perfino docenti e studenti hanno voce in capitolo e possono, con i loro corpi, manifestare gusti e preferenze, portare in classe la loro cultura e creare, infine, una nuova cultura democratica?
5. Impedirai loro di diventare persone autonome
Per sviluppare una piena padronanza della lettura e poter godere in autonomia di un romanzo o di un saggio di media difficoltà, un essere umano ha bisogno di un lungo processo di addestramento, che solitamente non può iniziare prima dei cinque, sei anni di età e si protrae per un numero di anni che può variare da cinque a otto e che sarebbe preferibile non interrompere mai. Al contrario dell’apprendimento della lingua materna, che viene acquisita attraverso l’esperienza, per imitazione, senza che la persona abbia la percezione di subire una trasformazione profonda, l’apprendimento della lettura è un processo faticoso e impegnativo, che tradizionalmente è stato accompagnato da punizioni corporali, coercizioni di vario tipo e, quando è il caso, premi adeguati al merito dell’apprendente. Leggere ad alta voce a bambine e bambini pre-alfabeti, che ancora sono immersi nella lingua d’origine e sono in grado di attribuire un significato alle frasi semplicemente immergendosi nella storia ascoltata e cooperando alla costruzione del mondo narrato, è un’opera meritoria, che facilita la successiva acquisizione della capacità di lettura e crea una certa familiarità con il libro e con la parola scritta. Ma che fare poi, quando viene il momento di faticare sulla pagina per anni e anni, e la lettura ad alta voce potrebbe – al pari di un videogioco – rappresentare una fonte di distrazione e di divertimento? Come le riscritture dei classici realizzate per la letteratura per l’infanzia (Cantatore, 2019), la lettura ad alta voce non dovrebbe essere considerata una forma deteriore di letteratura, tesa a favorire il mero consumo di opere, a tutto vantaggio del mercato editoriale e con il rischio di mantenere bambine e bambini in uno stato di minorità?
6. Se leggi per gli altri, perderai la tua credibilità e autorevolezza di docente
Invitato dalla rivista «Pedagogia più didattica» a riflettere sulla formazione dei docenti di scuola secondaria, Massimo Baldacci (2022) ha messo in evidenza la necessità di definire preliminarmente quale idea di insegnante debba essere assunta come riferimento, su cui far convergere i vari aspetti del percorso formativo, un «principio-guida» capace di orientare le scelte politiche e culturali di fondo. In pedagogia – si legge nell’editoriale – sono state proposte varie soluzioni per caratterizzare l’immagine del docente, spesso attraverso metafore (ivi, p. 2):
l’insegnante come artista, che sottolinea il ruolo dell’intuizione e della creatività nel lavoro in classe; l’insegnante come ingegnere, che enfatizza l’esigenza di una pianificazione didattica tecnicamente adeguata; l’insegnante come ricercatore (di matrice deweyana), che evidenzia la capacità di far fronte in modo riflessivo ai problemi della pratica didattica; l’insegnante come intellettuale (di estrazione gramsciana), che mette in primo piano il ruolo della consapevolezza storico-culturale della problematica formativa e la figura del docente come dirigente del processo formativo. E altre.
E che insegnante sono io? Con quale di queste metafore posso o vorrei riconoscermi? E chi è l’insegnante che legge ad alta voce? Dovendo scegliere tra una delle metafore elencate, sarei orientato verso l’insegnante come ricercatore e ricercatrice, «aperto alla sperimentazione di ipotesi rispetto ai problemi della pratica didattica» e pronto a «imparare ad apprendere in modo intelligente dalla propria esperienza» (ivi, p. 3), come auspicato dall’applicazione più rigorosa della metodologia della letteratura ad alta voce condivisa (Batini, a cura di, 2022), che si basa appunto sulla formulazione dell’ipotesi – derivata dalla letteratura scientifica basata sull’evidenza – che l’esposizione intensiva e prolungata alla lettura ad alta voce di storie produca determinati effetti sugli apprendimenti, e quindi sull’adozione da parte di chi insegna di procedure, tecniche e strumenti su cui svolgere un periodo di formazione e poi da provare direttamente in classe (Batini, a cura di, 2021). Completa il ciclo la riflessione sull’esperienza, condotta con il supporto di un diario di bordo e poi condivisa con colleghe, colleghi e consulenti.
Tuttavia, leggere per gli altri è anche una pratica di cura, che per alcuni aspetti ha a che fare con la cultura del dono e – soprattutto se si pensa che trova la sua massima espressione nei servizi educativi per l’infanzia, o, anche, in ospedali e altri contesti di cura – con il servizio alla persona.
Alla metafora dell’insegnante come addetto o addetta alla cura e al servizio ricorre ampiamente bell books (2022) nel suo Insegnare comunità, dove si legge che insegnare, nella sua massima espressione «è un lavoro di cura» (ivi, p. 122), ma dato che «nella nostra società i lavori di cura sono fortemente svalutati, «Non c’è da stupirsi, quindi, che chi insegna, specialmente nelle istituzioni più prestigiose, rifugga la nozione di servizio come dimensione vitale del lavoro con gli studenti, dentro e fuori dalla classe» (ibidem).
Cercare e scegliere dei libri adatti a ogni studente e alla comunità della classe, leggerlo con attenzione e annotarlo come se fosse un copione, e poi creare le condizioni migliori affinché ogni studente ascolti, guardare e ascoltare con attenzione ogni minima reazione, in modo da usare ogni strategia e tecnica possibile per migliorare la comprensione e garantire una piacevole sessione di lettura, e poi cambiare libro, ascoltare le richieste, reagire alle domande: ogni azione rimanda all’idea che in effetti leggere per gli altri sia un lavoro di cura ancor prima che una ricerca, e che poco abbia da spartire con il ruolo dell’artista, dell’ingegnere o dell’intellettuale.
Siete sicuri di voler affrontare questo cambiamento, e di mettervi davvero al servizio degli e delle studenti? Prima di fare il grande passo, può essere utile rileggere questa pagina di bell hooks (ed è bene tenere a mente che è difficile tornare indietro):
Gli insegnanti che si pongono al servizio degli studenti e se ne prendono cura di solito sono in aperto contrasto con gli ambienti in cui insegnano. Il più delle volte, ci troviamo a lavorare nell’ambito di istituzioni in cui la conoscenza è strutturata per rafforzare la cultura dominante. Il servizio si rivela vitale, dunque, come forma di resistenza politica, perché è una pratica del dare scollegata dall’idea di una ricompensa. La soddisfazione sta nell’atto di donarsi, di creare un contesto nel quale gli studenti possano imparare liberamente. Quando noi insegnanti ci impegniamo a servire, diventiamo capaci di resistere alla tentazione di prendere parte a quelle forme di controllo che rafforzano il dominio autocratico. L’insegnante capace di servire afferma senza sosta, con la pratica, che educare gli studenti è davvero ciò che più conta, non l’autoesaltazione o l’affermazione del proprio potere personale. La pedagogia convenzionale spesso crea un contesto in cui chi studia si trova in classe per servire la volontà di chi insegna e soddisfarne i bisogni – che si tratti del bisogno di una platea, di nutrire il proprio lavoro sfruttando le idee innovative degli studenti o di affermare su di essi il proprio dominio, come se fossero semplici subordinati. Insegnare con sollecitudine significa, al contrario, sforzarsi di sfidare e riformare questa tradizione di abuso, e impegnarsi nel servizio aiuta chi insegna a sentirsi responsabile di portare contenuti etici in classe. Cura e servizio interferiscono con la gestione aziendale della classe. Tali atti di cura intenzionali trasmettono agli studenti l’idea fondamentale che lo scopo dell’istruzione non è dominarli o prepararli a diventare dominatori, ma piuttosto creare le condizioni per la libertà. Educatrici e educatori premurosi aprono le menti di chi studia, consentendogli di abbracciare un mondo di conoscenza costantemente soggetto a cambiamenti e nuove sfide. (Ivi, pp. 128-129).
Riferimenti bibliografici
Baldacci. M. (2022), “Un principio-guida per la formazione dei docenti”, in Pedagogia più Didattica, 8(2), pp. 1-3.
Batini, F., a cura di (2022), Il futuro della lettura ad alta voce. Alcuni risultati della ricerca educativa internazionale, Milano, Franco Angeli.
Batini, F., a cura di (2023), La lettura ad alta voce condivisa. Un metodo in direzione dell’equità, Il Mulino, Bologna.
Batini, F., Giusti, S. a cura di (2022), Strategie e tecniche per leggere ad alta voce a scuola. 16 suggerimenti per insegnanti del primo e del secondo ciclo, Franco Angeli, Milano.
Cantatore, L. (2019), “Le riscritture dei classici nella letteratura per l’infanzia”, in Letteratura per l’infanzia. Forme, temi e simboli del contemporaneo, a c. di S. Barsotti e L. Cantatore, Carocci, Roma, pp. 247-265.
Cavarero, A. (2003), A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano.
Corsini, C. (2023), La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, Franco Angeli, Milano.
Faeti, A. (2001), “Un tenebroso affare. Scuola e romanzo in Italia”, in Il romanzo. La cultura del romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino, pp. 107-128.
Giusti, S. (2020), “L’esperienza dei mondi narrati”, in Le parole e le storie. Lessico e lettura, a cura di F. Batini, Giunti Scuola, Firenze, pp. 51-68.
hooks b. (2022), Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, trad. it. di feminoska, Meltemi, Milano (tit. or. Teaching Community: A Pedagogy of Hope, Routledge, New York, 2003).
Sanguineti, E. (1997), “Ci sono altri modi per insegnare letteratura che non siano il manuale di storia letteraria e l’antologia?”, in Il testo fa scuola. Libri di testo, linguaggi ed educazione linguistica, a cura di R. Calò, S. Ferreri, La Nuova Italia, Firenze, pp. 33-40.
Siti, W. (2001), “Il romanzo sotto accusa”, in Il romanzo. La cultura del romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino, pp. 129-192.