Recupero e pubblico di seguito il primo capitolo di un libro edito da Effequ nel 2016.
È successo un paio di giorni prima delle ultime elezioni regionali. Io al bar vado per leggere il giornale locale, per fare rifornimento di acqua – perché devo bere spesso e invece regolarmente me ne dimentico – e per prendere un caffè. Due clienti in piedi sulla soglia discutono animatamente, ma si capisce subito che la pensano allo stesso modo. Gli stranieri, dicono, gli immigrati, che ci rubano i soldi e il lavoro, sono la vergogna dell’Italia. Non ricordo il resto. Non mi andava di stare attento, di seguire, diciamo, il ragionamento. Ho sempre paura delle mie reazioni, in questi casi, e allora sono tornato in ufficio con la sensazione di aver assistito a uno spettacolo misero ma di successo, che in quello stesso momento si stava dando in replica in chissà quanti locali della penisola: decine, centinaia, forse migliaia. E non è solo una questione elettorale. È una campagna permanente di odio, fatta di parole rilanciate dalla tv e dalla radio, dai giornali, e poi rimasticate quotidianamente dalle chiacchiere in famiglia, tra amici e anche tra sconosciuti, sui social o sull’autobus, ugualmente disincarnati e irresponsabili gli interlocutori.
La puzza di questi discorsi si sente dalla luna. Riesce addirittura a coprire l’odore di morte che ogni tanto risale dal canale di Sicilia. Non è possibile parlare dell’Italia senza cominciare da qui, da questo grottesco e odioso rigurgito razzista. È una merda che va spalata via, sporcandosi le mani se necessario, a viso aperto, senza nascondere l’odio che solo il razzista riesce a suscitarmi.
E allora provo a leggere una poesia che fin dalla sua forma dovrebbe mettere il razzista di merda sul chi vive. Attenti! Dice il razzista. Qui c’è qualcosa che non va. Il poeta, poveretto, ci prende per il culo. Chi si crede di essere, il poeta!
al bicicleti mezi inriznidi dal badanti
parchigedi int e’ perch la zobia dopmezdè
vampè d’musica maghrebina
da talafunin patachetle biciclette mezze arrugginite delle badanti
parcheggiate nel parco il giovedì pomeriggio
folate di musica maghrebina
da cellulari sboroncelli
Osserviamola: sono quattro versi, due coppie, moltiplicati per due. Faccia a faccia, praticamente allo specchio. Testo a fronte, si chiama. Si utilizza per i poeti stranieri che vengono tradotti in italiano, e anche per i poeti che scrivono in dialetto, la loro madrelingua, e poi si autotraducono in italiano.
Basta poco, uno sguardo, e la poesia non è più un’entità unica e irripetibile, eterea, fuori dal tempo e dallo spazio. No, diavolo! La poesia, così rappresentata, appare da subito multipla, e concreta. Un messaggio che ha bisogno di essere tradotto, che si muove da una lingua a un’altra, di persona in persona. Altro che Poesia. Una poesia, una specie di haiku, alla maniera giapponese, due frasi che scivolano una accanto all’altra. Un’immagine, quasi una fotografia: le biciclette arrugginite parcheggiate. Una musica ovattata e distorta. Il romagnolo a sinistra, l’italiano a destra. Suoni secchi, rapidi, schioccanti, a sinistra, più morbidi a destra. Due in uno, uno che si fa due. Uno e molteplice.
Andrea Aldrighetti, un poeta di Verona, mi raccontava un paio d’anni fa che i leghisti lo invitavano a suonare alle feste di paese, alle sagre. Vedevano il nome del gruppo – Le fughe de le matonele – e pensavano: ecco, questi sì che sono dei veri veneti, padani autentici, che parlano e scrivono e cantano in dialetto. “Voialtri sì bravi!”, pensavano, naturalmente in dialetto. Perché c’è qualcuno, in Italia, che pensa che il dialetto sia una raffigurazione della chiusura di un piccolo mondo all’esterno. Una specie di confine. E di nido. Invece per i molti poeti che si definiscono “neodialettali” l’uso della loro madrelingua è un segno di coraggio. Il coraggio di presentarsi divisi, scissi, irrequieti, presenti contemporaneamente in più luoghi (a Verona e in Italia) e in anche più epoche (ora e nell’infanzia).
E però, scrivere in veronese come Andrea Aldrighetti, o in romagnolo come Giovanni Nadiani, non vuol dire assecondare le tentazioni della nostalgia, quanto, semmai, constatare e accettare che oggi il mondo è impurità, incrocio, meticciamento. Métissage si direbbe tra persone raffinate, che conoscono il francese e hanno letto i saggi degli intellettuali caraibici della Martinica. Che se ne intendono, loro, di incroci.
L’ultima volta che ho incontrato Giovanni Nadiani, nell’autunno del 2013, siamo andati insieme da Romagna souvenir a Forlì, per vedere da vicino come s’inventa una tradizione per abbindolare il turista. E visto che noi italiani siamo tutti un po’ turisti, di quei turisti superficiali che prediligono le città d’arte, dove non c’è bisogno di incontrare nessuno perché nessuno le abita, i souvenir – che dalle mie parti in Maremma sarebbero dei piccoli butteri a cavallo o le magliette col cinghiale – servono a rendere i luoghi più rassicuranti anche per chi li abita. Più brutti, certo, ma più sicuri. Come le ronde dei cittadini che pattugliano le strade. Come le rotatorie che ingombrano le città.
Le rotatorie – mi ha spiegato una volta Aluisi Tosolini, un friulano che vive a Parma e che anche per questo ne sa parecchio di intercultura – sono nemiche dell’incrocio. E dell’incontro. Nelle rotatorie ci si guarda di traverso, di sguincio, con la coda dell’occhio. Mai uno sguardo diretto, faccia a faccia. E si scivola via sulla strada fianco a fianco, certo, ma senza mai andare a sbattere l’uno contro l’altro.
Conosco Giovanni Nadiani da più di vent’anni. Leggo le sue poesie, i suoi saggi, le sue traduzioni. Mai trovata una rotatoria. Mai incontrata una ronda o un vigilante. Conoscere la sua Romagna, non quella della tv e dei souvenir, ma quella dei fossi, degli affetti e delle barzellette nei bar, è stato per me, grazie a Zvan Nadiani il disvelatore, un viaggio nell’autenticità. Gradualmente, e attraverso la fatica dell’incontro con l’alterità della sua lingua e del suo luogo ormai distrutto, divenuto non luogo, invel, mi ha portato a una diversa conoscenza di me, di noi, dei nostri spazi e di ciò che ci resta per sentirci ancora veri, concreti.
Una volta, per mio piacere, ho tradotto una sua poesia dal romagnolo al mio italiano. Che, necessariamente, è diverso dal suo. Si intitola dmenga, domenica. Io l’ho assimilata così:
ci sono si sono visti
sono tornati a casa?
esser là per chi arriva
aspettare finché faccia buio…
(fa male la schiena
a forza di star qui impalati
a far cenno a uno che non viene)
se gli altri non ci sono
noi siamo nessuno
se ci siamo per tutti
ci consumiamo come
esser stati mai
essere in ciò che non siamo
in ciò che gli altri sono…