Conversando di lettura e di narrazione con Andrea Smorti, è venuto a galla il tema delle posizioni della lettura. Nella didattica, come nella vita quotidiana, – dicevamo durante la nostra chiacchierata –dovremmo dare maggiore importanza all’atto concreto del leggere, e poi agli effetti che la lettura ha sulle persone in carne e ossa. Dopo la conversazione mi sono ricordato di aver scritto qualcosa di simile in un libro di tre anni fa.
Le posizioni della lettura sono infinite. Per esempio, sdraiati sulla sabbia, proni col libro in una mano. Posizione ideale per immergersi in una storia di Montalbano o di Petra Delicado: tascabili Sellerio maneggevoli, di dimensioni ridotte, copertina flessibile, carta gialla opaca, ottima per attenuare il riflesso della luce estiva. Può capitare che, durante un interrogatorio nella questura di Montelusa, o sorseggiando una birretta in un’osteria di Barcellona, ci si rigiri, supini, i gomiti piantati nella sabbia, senza accorgersi del tempo che passa, degli schiamazzi intorno, del rollio incessante delle onde, che è andato via il sole.
Leggere romanzi è come andare ad abitare in una storia. L’immedesimazione nei personaggi, la crescente familiarità della voce del narratore, la ricostruzione – l’immaginazione! – degli ambienti, sono fenomeni noti al lettore compulsivo, che non riesce a svolgere le più banali funzioni corporali senza avere un romanzo a portata di mano.
La lettura della poesia, invece, è associata al canto o, secondo quanto imparato a scuola fin dalla prima infanzia, alla contemplazione della bellezza, alla riflessione sulla natura umana. La poesia è suono e senso, certo. Un concentrato linguistico potenzialmente in grado di imprimersi nella memoria come uno stampo, ogni parola, ogni lettera al suo posto. Impossibile da riassumere o da raccontare. Ma non per questo priva di una storia, di personaggi e ambienti che, come in un romanzo, possono trasportarti in un altrove, un mondo immaginato in cui simulare esperienze. Come in un videogioco, prima dei videogiochi.
Chi è questo che fuma accanto a me
il suo mezzo toscano tra mezze parole
di convenienza, e sorride
nell’aria tremolante del mattino, dà uno sguardo
ai tetti, alle donne che passano, alle nuvole,
ripiega il suo giornale di rapina, alza la testa
e si avvia con la moglie col fare di chi
ha vinto ancora, come sempre sa
di avere vinto: e vinto cosa poi?Lui è lui, io forse io, nessuno è noi.
È una poesia di Fabio Pusterla, la quinta di una serie intitolata Aprile 2006. Cartoline d’Italia. Come nell’Infinito di Leopardi (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”), come nei Fiumi di Ungaretti (“Mi tengo a quest’albero mutilato”), fin dal primo verso chi legge è costretto a immaginarsi proprio lì, a fianco del poeta-narratore, il personaggio che dice io e racconta una piccola storia piazzandocisi dentro, in prima persona. Come accade per la Divina Commedia (“esta selva selvaggia”), in cui la lettura è un’esperienza quasi fisica, una lunga camminata a fianco o alle spalle del protagonista, il personaggio Dante, condividendone sensazioni ed emozioni. Come in un romanzo, appunto. Ma più in breve, in forma concisa.
Ogni frase costruisce un pezzo di un mondo, in questo caso realistico, verosimile. Al primo verso nella mente si accampano due personaggi: il personaggio che narra e dice “io”, e “lui”, quello che fuma. Sono vicini, forse seduti al tavolo di un bar all’aperto. Poi arrivano gli atteggiamenti di lui – che a me sembrano convenzionali – e l’ambiente, la scenografia, i personaggi secondari. Quando lui si alza, infine, l’io formula un’ipotesi ed esprime un giudizio, mettendosi così in mostra: “e si avvia con la moglie col fare di chi / ha vinto ancora, come sempre sa / di avere vinto: e vinto cosa poi?”. L’io del poeta legge nel comportamento di lui, il fumatore sconosciuto, i segni dell’arroganza e della sicurezza di sé. Si sente diverso, il poeta, e la sua diversità è messa in risalto dalla vicinanza a quell’altro, il vincitore. La sentenza dell’ultimo verso chiude il discorso: tra io e lui è eretta un’invisibile barriera. I due, separati, non sono in grado di dare vita a un “noi”. Individui che non collaborano, che non si capiscono, che non contribuiscono a formare una comunità.
È una sensazione che ho provato decine di volte, un’esperienza che in questa poesia ha trovato una forma, una direzione. Ogni volta che torno ad abitare in questa piccola storia – come in un romanzo in miniatura – mi trovo a riviverla. Mi siedo al tavolo del bar, sento l’odore del sigaro, mi volto e mi ritrovo accanto a una coppia, marito e moglie. So già chi sono, non mi dicono niente di nuovo e non mi stupisco. Mi stupisce semmai vedere che anche io penso per stereotipi, per luoghi comuni. In loro, in lui soprattutto, rivedo la figura dell’eterno caporale, l’uomo tutto d’un pezzo, sicuro di sé, quello che “non si volta”, mi viene da dire con le parole di Eugenio Montale, procede per la sua strada, non importa quale essa sia. E capisco che convivere nella stessa società non comporta necessariamente essere insieme, anzi. Ci si ritrova spesso separati. Siamo separati. Non importa di chi sia la colpa. Un noi non esiste. Questo è il punto.
Ecco, sono questi i poeti che uso di più, che tengo sempre a portata di mano. Quelli che mi danno l’opportunità di incontrare almeno un personaggio, di immaginarlo, attivando così il testo nella mia mente. È solo così che riesco a sconfiggere quei momenti, sempre tragici, in cui percepisco che un noi non è possibile. Leggo poesie come fossero romanzi, coinvolto, sconvolto se necessario.
Tratto da S. Giusti, Cambio verso. La poesia che ci serve a sopportare l’Italia, Effequ 2016.