Le novelle iniziavano sempre con tempi indefiniti come l’imperfetto, che è una temporalità di scorcio, nel vago della lontananza: “Fu già in Siena uno dipintore, che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana…” (Sacchetti, Trecentonovelle, 84). È la forma più antica di racconto, ed è il tipico attacco delle fiabe: “C’era una volta…” L’imperfetto sospende tutto nell’atto del dire, del narrare, ed è questo che produce un alone immaginativo nelle parole; una specie di in illo tempore come quello dei racconti mitici. Le novelle passano ai tempi puntuali quando si tratta d’un fatto che rompe un tran tran consueto: “Avvenne un giorno che…” Ma anche le vicende intermedie hanno una temporalità di scorcio, finché si arriva al punto memorabile della storia. Questo è sempre presentato con un tempo puntuale, il passato remoto, passato assoluto che accentua la tensione del racconto. Andreuccio da Perugia, ingannato dalla Siciliana, caduto nella discarica di escrementi, si ritrova di notte nel vicolo e “cominciò a batter l’uscio e gridare; e tanto fece così che molti circostanti vicini desti, si levarono.”(Dec. II, 5). Con questo tempo verbale il racconto diventa più teso; ma è una scena dove niente è spiegato, niente descritto; l’azione in corso è appena accennata; e qui “immaginare” vuol dire più che altro riconoscere un movimento di ombre verso cui la nostra attenzione è attratta, e con cui si produce una sospensione più netta del tempo vissuto – dove il telefono non suona più per noi, e rumori del traffico nella strada accanto non arrivano più al nostro orecchio.
Gianni Celati, Lo spirito della novella, «Griseldaonline», n. VI, 2006-2007.
C’era una volta Gianni Celati, che fu scrittore in Italia, e riscrittore e traduttore, immischiato sempre e per sempre in faccende letterarie e linguistiche, quindi inventore e manipolatore di canti e di racconti, di visioni e di trasfigurazioni.
In un libro aureo – Gianni Celati e i classici italiani. Narrazioni e riscritture (Franco Angeli, 2020) – Elisabetta Menetti ha individuato e descritto i tratti fondamentali della poetica di Celati, a partire dal concetto chiave di fantasticazione, un neologismo celatiano che ci porta subito nel dominio dell’oralità, in uno spazio relazionale che nasce e si alimenta attraverso la condivisione di storie. La parola, che lo stesso Celati fa derivare dal concetto di phantasía così come è proposto da Aristotele nel De anima, si riferisce a un’azione o un agire fantasticante, fondato sulla fantasia, ovvero su un processo che tiene insieme la percezione sensoriale, la memoria in quanto immaginario individuale e collettivo, e quelle operazioni immaginative e intellettive che producono – se stimolate da un pubblico, da un uditorio – nuove storie (fabulazioni), dando vita a quella che Menetti definisce, sulla scorta delle riflessioni di Celati, «una comunità fantasticante, formata da chi racconta e chi ascolta». E di «compagnia di ascolto» aveva parlato lo stesso Celati nel breve saggio intitolato Lo spirito della novella:
La compagnia di ascolto è parte stabile della cornice del Decamerone, dove un gruppo di giovanotti e donzelle si scambiano racconti. Anzi, si può dire che la novella nella sua forma più tipica sia precisamente questo: la messa in scena d’uno scambio di racconti, con un appello agli ascoltatori, come richiamo all’essenza dialogica del novellare: “Piacevoli donne e voi graziosi gioveni, fu, non è ancor molto, in una nostra villa non guari lontana dalla città…” (Fortini, Notti, I). E questa diventa una specie di segnatura che marca la tradizione più tipica della novella, basata su dialoghi, pratiche di conversazione e scambi da narratore a narratore.
Per Celati la novella, prima ancora di essere un resoconto di fatti veri o realistici, va intesa come azione narrativa, la scelta di condividere una o più versioni di determinati fatti, con l’accento messo sull’atto del novellare – il conversare, il raccontar novelle, l’affabulare – anziché sulle caratteristiche testuali o sui temi affrontati. La novella antica, in particolare, fornirebbe un modello di comportamento, uno stile di vita basato sulla condivisione di storie, sull’immaginare insieme. E mentre con il romanzo realista (novel) le storie tendono a chiudersi «entro i margini del testo» – metafora usata dallo stesso Celati – e quindi sarebbero non riscrivibili, – le novelle antiche sembrerebbero chiedere o reclamare la riscrittura, il rimaneggiamento, il riuso. Tutte pratiche che vedono l’autore/riscrittore in un ruolo apparentemente diminuito o, meglio, dissolto o disciolto nella comunità che, mettendosi in ascolto, diventa parte integrante di un processo creativo collettivo, comunitario appunto.
Ecco dunque spiegato il motivo della passione di Celati per le riscritture dei classici, praticate con risultati straordinari nell’ambito della novellistica e della letteratura cavalleresca, e culminante nel capolavoro – ormai scomparso dal mercato editoriale e quindi da ristampare subito! – dell’Orlando innamorato raccontato in prosa (Einaudi, 1994). «La letteratura stessa – dichiara Celati in un’intervista pubblicata in Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, 2011 –, a me sembra non un prodotto di autori separati ma di popolazioni, di bande di sognatori, tra cui avviene quell’ascolto e quella visitazione fantastica che hai detto. Per questo la letteratura cavalleresca è la tradizione narrativa italiana che più mi attira e che bisognerebbe rimettersi a studiare. Perché non si parla di individui separati nella loro cosiddetta psicologia, non parla dell’individuo moderno chiuso nel proprio guscio, ma sempre della vita come un fenomeno vegetativo generale, dove tutto è collegato e tutto è animato. E parla di popolazioni di sognatori passionali e sbandati, puramente esposti alla fatalità del destino, come Don Chisciotte».
Scrivere dunque, come narrare o leggere ad alta voce, è un lavoro comunitario, che ricorda il teatro dei burattini così come lo pensa e descrive Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia. La tradizione narrativa medievale, ovvero la novellistica (in prosa) e la letteratura cavalleresca (in versi), afferma Menetti, «non resta nella sua memoria [di Celati] come un reperto archeologico inerte ma attiva una nuova energia interiore alla ricerca di una intelligenza collettiva che si crea e si ricrea tramite il raccontare». A quella stessa energia vorremmo attingere ogni volta che riprendiamo in mano un’opera della tradizione, che se continua a trovare un senso è proprio grazie al desiderio e alla volontà di far parte di una comunità fantasticante.