In un capitoletto del libro Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018) affrontavo il tema della versioni e del loro ruolo nell’apprendimento e nell’insegnamento. Ne riporto di seguito un estratto.
Gran parte del dibattito sulla scuola contemporanea si concentra ancora oggi sull’importanza o meno dell’insegnamento del latino e sul suo ruolo nella formazione delle giovani generazioni. Tuttavia, la storia scolastica del latino, ha scritto Françoise Waquet in un suo saggio su Splendore e decadenza del latino, “non sarebbe pienamente comprensibile se si trascurassero i discorsi che sono stati fatti per giustificarne lo studio” (2008, p. 22). Uno studio che, nel tempo è stato considerato, di volta in volta:
– “estremamente benefico per lo sviluppo delle facoltà intellettuali del giovane, della memoria come pure della capacità logica” (ivi, p. 23);
– “il mezzo per fare acquisire carattere, coraggio e tenacia” (ibidem);
– una protezione “dai pericoli del mondo moderno e di certe ideologie, come ad esempio i materialismi” (ibidem) (sia da quello comunista, sia da quello utilitarista);
– uno strumento per la “formazione dell’uomo”, fondamentale per “un insegnamento secondario non «professionale», «disinteressato»” (ivi, p. 24);
– “l’aiuto nell’apprendimento di un’altra lingua” (ibidem);
La ripetizione secolare di questi stessi argomenti, enunciati in modo pressoché identico in tutto il mondo occidentale, dice ancora Waquet, li ha trasformati in verità di fatto:
Poco importa che non fossero mai dimostrati e che fossero indimostrabili. Si fondavano su una molla molto potente: l’intima convinzione. Le argomentazioni a favore del latino attenevano innanzitutto alla fede, e funzionarono molto bene proprio in quanto costituivano un discorso perfettamente coerente, ordinato intorno all’uomo e alla sua formazione. Ripetuto senza posa, questo discorso divenne un credo pienamente interiorizzato. Si trasformò in una tradizione che finì per essere considerata “sacra”. Da cui le predizioni estremamente cupe, se non apocalittiche, sulle conseguenze che ogni riduzione dello studio del latino e, a fortiori, la sua soppressione avrebbero comportato: crisi della lingua madre, avvento del regno della pigrizia, perdita del senso morale, sradicamento dell’individuo, rovina della società, eccetera (Ivi, pp. 24-25).
In particolare, il primo degli argomenti usati a favore dell’insegnamento del latino – lo sviluppo delle capacità intellettuali e della logica – spiega l’orientamento grammaticale della sua didattica e, quindi, il posto preminente assegnato alla versione:
[…] un esercizio che, come è stato ripetuto a mo’ di panegirico, metteva in opera capacità di analisi e di sintesi. Il lavoro scolastico giunse spesso a dedicare la maggior parte del tempo all’apprendimento delle regole latine e alla decifrazione di un breve testo. Questo processo di memorizzazione e decodifica non portava alla lettura scorrevole di pagine di letteratura latina. E questo non deve stupire visto che l’obiettivo non era tanto insegnare l’arte di leggere il latino facilmente ma di acquisire una disciplina intellettuale. Inoltre, gli effetti di questa “ginnastica mentale” – per riprendere un’espressione molto in voga fin dal XIX secolo – erano benefici per altre materie. Questo ruolo di formatore dello spirito attribuito al latino è un leitmotiv tuttora ricorrente del discorso pedagogico.
Il latino, che si riteneva portasse il giovane a pensare con precisione ed esattezza, si trovò ammantato di un’ulteriore virtù dovuta al suo stesso studio. Il latino era di difficile apprendimento, e quindi produceva intelligenze robuste e caratteri solidi.
Nella “lotta” intrapresa contro il testo latino, il giovane si fortificava e si armava per combattere le difficoltà che avrebbe incontrato nella sua vita di adulto (ivi, p. 23).
Già Augusto Monti, uno dei più auterovoli e acuti sostenitori dell’esigenza di leggere i classici a scuola, nel suo libro Scuola classica e vita moderna, pubblicato dalle “Edizioni de la Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti nel 1923, spiegava come nella scuola di quegli anni si fornissero agli studenti – sia da parte del Ministero, in occasione degli esami, sia da parte dei docenti e quindi dei libri scolastici – brani scelti privi di indicazioni sull’autore e non corredati di note:
Il che significa, in altre parole, che il passo proposto al giovane perché lo traduca, non ha più da essere una pagina di un libro intitolato così e così, scritto da un autore che fiorì nel tale secolo, ma basta che sia il numero tale della tal collezione; e codesto passo non lo si legge mica per curiosità di saperne il contenuto, per discuterne il significato, per assimilarne l’essenza, no; questo passo lo si “traduce”, anzitutto per allenarsi a tradurre a suo tempo un altro “brano”, l’ultimo se Dio vuole, quello che giunge da Roma, avvolto nella stagnola come un cioccolatino, e assicurato dai “sette sigilli”; e poi, subordinatamente, per desumerne quella tal “classificazione” che il professore segnerà, magari con l’inchiostro rosso, sul suo registro, una di quelle sue molteplici “finche”, e poi subordinatamente acora, per mettere insieme quei tali fasci di compiti, che, a tenor di regolamento, si devono consegnare in presidenza, perché vi rimangano per un biennio, a disposizione di quell’ispettore, che magari non verrà mai (Monti, 1968, p. 71).
Quella che viene criticata è una visione autoreferenziale dello studio delle lingue classiche, usate per esercitare alcune abilità grammaticali e finalizzate al superamento dell’esame. La pagina dell’autore classico, in questo senso, diventerebbe una “serie di forme grammaticali e di nessi sintattici”, oppure un “manubrio di allenamento e pezza giustificativa”.
Sì, che, tra “filologia” e “amministrazione”, ci si va riducendo, nelle nostre scuole classiche, a questo: che va divenendo impossibile indurre gli scolari a considerare un qualunque passo di latino e di greco come un qualcosa che abbia un po’ di senso comune: al punto che, mentre non è impossibile trovare in una classe di ginnasio o di liceo, tre quattro dieci giovani che siano in grado di “voltare” in italiano un passo di latino o greco senza troppi stenti, è impossibile trovarne anche uno solo, che, “voltato” il passo, sappia poi, con parole sue, o rinarrarti l’episodio o rifarti il ragionamento contenuto in quel passo stesso. Del che veramente non si può dire che la copla sia tutta degli scolari (ivi, p. 72).
Se invece, come auspicava Monti, si volesse usare la versione individuale dal latino e dal greco come uno dei tanti mezzi con cui raggiungere lo scopo della conoscenza del mondo greco-latino, allora, nell’assegnare gli esercizi, occorrerebbe rispettare alcuni principi di base:
– “che ogni passo assegnato agli scolari per esercitazioni individuali di versione, deve essere considerato e trattato come un qualunque altro passo di autore che si legga in classe” e vada dunque integrato con informazioni sull’opera, sull’autore, sull’epoca, eccetera, “che valgono a far del «brano» un documento di storia e di vita” (ivi, p. 76-77);
– devono “aver relazione necessaria con le altri parti dell’insegnamento e formar sistema col resto di quella compagine, che è un corso liceale di latino e greco”, per cui vanno assegnati brani di autori e temi trattati durante il corso e noti agli studenti.
In questo senso sarebbe utile, dice ancora Monti, vista l’assenza di libri scolastici adeguati, ricavare i brani da tradurre “da una unica opera di un unico autore, ed esser posti fra loro in relazione con brevi riassunti dettati dall’insegnante”, ottenendo così il vantaggio non trascurabile “di far conoscere al giovane, direttamente e con una certa ampiezza, un’altra opera e un altro autore accanto all’opera e all’autore scelti per il corso” (ivi, p. 79).
Ancora oggi, nel corso del 2017, si discute animatamente sull’opportunità o meno di assegnare, all’esame di Stato, un esercizio di versione puro e semplice, privo di note di qualsiasi tipo, come è il caso delle prove assegnate negli anni passati: un titolo in italiano, il testo di un brano in latino accompagnato dal nome dell’autore. Nessuna informazione sull’opera o sull’epoca della sua stesura. Ultimamente, come nel caso della prova dell’anno scolastico 2016/17, il testo è preceduto da una breve nota che contestualizza il brano (Il valore della filosofia di Seneca):
Non possiamo rinunciare al pensiero e all’indagine continua sul senso della vita e delle nostre azioni. La filosofia è l’antidoto alla passività degli atteggiamenti e ci consente di comprendere sempre ciò che siamo e ciò che facciamo. L’autore ribadisce il valore della filosofia all’allievo Lucilio, invitandolo in ogni caso a non perdere mai la passione per l’impegno nella riflessione critica e consapevole.
È la direzione auspicata dal latinista Maurizio Bettini – prosecutore della strada tracciata da Monti – il quale sostiene la necessità di far precedere il testo da una contestualizzazione più ampia che aiuti a capire di cosa si sta parlando. D’altronde, spiega in un articolo del 2015 che ha suscitato un grande dibattito sui quotidiani e sul web, “Sono anni che la linguistica ha messo in evidenza l’importanza del «contesto» per determinare il senso di qualsiasi enunciato: perché greco e latino dovrebbero fare eccezione?”. Occorrerebbe, anche, far seguire al testo da tradurre “una serie di domande che vertano non solo sui suoi aspetti linguistici, ma anche su quelli culturali o letterari”, in questo modo “si permetterebbe finalmente allo studente di valorizzare anche ciò che ha capito, e possibilmente amato, della cultura antica” e, inoltre, “sapere che la prova finale darà spazio non solo alla lingua, ma anche alla cultura dei Greci e dei Romani, permetterà finalmente agli insegnanti di dedicare più tempo e più energie a questi aspetti – i più affascinanti degli studi classici – senza sentirsi in colpa” (Bettini, 2015).
Le Indicazioni nazionali attualmente in vigore, dicono chiaramente che al termine del percorso di studi in Lingua e letteratura latina lo studente:
Pratica la traduzione non come meccanico esercizio di applicazione di regole, ma come strumento di conoscenza di un testo e di un autore che gli consente di immedesimarsi in un mondo diverso dal proprio e di sentire la sfida del tentativo di riproporlo in lingua italiana.
E poi, più avanti, nella parte dedicata al primo biennio:
Allo scopo di esercitare nel lavoro di traduzione (nel senso sopra definito) è consigliabile presentare testi corredati da note di contestualizzazione (informazioni relative all’autore, all’opera, al brano o al tema trattato), che introducano a una comprensione non solo letterale.
E allora perché non abolire, nell’uso scolastico, il nome stesso, “versione”, un latinismo che sa di scuola e che rinvia all’autoreferenzialità dell’esercizio, e ricorrere invece al suo sinonimo “traduzione”. Tradurre dal latino all’italiano, come si traduce dal francese o dal giapponese, riconoscendo allo studente lo status di traduttore, che legge un testo per riscriverlo, che – nell’epoca in cui tutte le “versioni”, intese come esercizi svolti, sono già a disposizione, come le parafrasi, sul web – si confronta con le traduzioni già esistenti, quelle autorevoli (“accreditate”, si legge nelle Indicazioni nazionali), frutto del lavoro di interpretazione e di riscrittura di traduttori come Luca Canali, Vittorio Sermonti, Rosa Calzecchi Onesti, per citare solo alcuni tra i migliori.
Riferimenti bibliografici
Bettini M. (2015), Quelle inutili anzi dannose traduzioni greche e latine, «La Repubblica», 5 marzo 2015.
Monti A. (1968), Scuola classica e vita moderna, Einaudi, Torino.
Waquet F. (2008), Splendore e decadenza del latino, in Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, Treellle, Genova, pp. 19-29.